

Carla Corbella Insegna teologia morale e bioetica presso la Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale – Sezione di Torino e all’Università Cattolica del Sacro Cuore presso l’Ospedale Cottolengo di Torino. È autrice di numerosi articoli e contributi in miscellanee su temi di etica della vita e sessualità. Nel suo percorso di ricerca è particolarmente attenta a un approccio e metodo interdisciplinari al fine di una comprensione globale delle questioni trattate e di realizzare un serio confronto con la visione antropologica postmoderna.Ha pubblicato, con EDB, Resistere o andarsene? Teologia e psicologia di fronte alla fedeltà nelle scelte di vita (2009) e, con le Edizioni San Paolo, Identità sessuale. È possibile un io felice? (2022).
Nell’approfondire la domanda iniziale rivolta dallo studente Christian Santoro – è possibile, oggi, accogliere l’invito di Bernard Häring per avviare percorsi che favoriscano una formazione non-violenta della coscienza morale? – la professoressa Sacco articola la risposta esplicitando come la coscienza morale, radicata nella somiglianza dell’uomo con Dio, si formi attraverso l’esperienza, l’educazione, la riflessione e la continua scelta del bene applicando la legge dell’amore con prudenza e saggezza. Il processo di formazione della coscienza non violenta coinvolge, dunque, l’educazione, l’esempio di persone esemplari e la crescita nella fede.
Il secondo contributo, a firma del professor Nacci, fa emergere alcuni elementi relativi alla formazione della coscienza in rapporto all’autorità, sia che essa sia concepita come legge morale che come autorità ecclesiale o civile. In questo alveo si sottolineano, in modo particolare, che lo stile stesso dell’educazione alla non-violenza debba essere non-violento, la necessità di acquisire la capacità di discernere e crescere nella libertà.
Nel presente contributo si propone di riflettere sul ruolo concreto dell’autorità cristianamente vissuta nella formazione di una coscienza cristianamente non violenta.
La morale delle beatitudini
Per fare questo si tiene sullo sfondo un testo di Bernard Häring finalizzato alla formazione morale nella comunità cristiana: La morale del discorso della montagna[1]. Si tratta non di un contributo di approfondimento teologico sistematico ma di un’applicazione concreta del messaggio morale delle beatitudini. Il testo ha due obiettivi che si attuano nella proposta scaturita dal Concilio Vaticano II: da una parte un ritorno radicale allo spirito del Vangelo dall’altra l’attenta considerazione dei segni dei tempi che, sottolinea l’autore, siamo in grado di interpretare rettamente solo nella misura in cui guardiamo ed ascoltiamo Cristo che ci annuncia il lieto messaggio del Regno dei cieli[2]. Interessante e originale è che il nostro autore tiene insieme la tradizione della teologia morale cattolica, dunque i comandamenti, i precetti e le virtù che considera però alla luce del discorso della montagna e del discorso di addio di Gesù contenuto in Giovanni cap. 13-17. Noi oggi leggiamo questo testo attraverso lo sgomento e l’insicurezza che la situazione mondiale procura alla fede, alla coscienza e alla stessa vita di milioni di uomini e donne.
All’interno del contributo di Häring in diversi punti significativi è presente il tema della necessità di formare una coscienza non-violenta. In particolare, si sottolinea come i fautori della non-violenza siano beati poiché non è possibile essere un vero figlio di Dio senza impegnarsi, secondo le proprie possibilità e le circostanze, per formare un cuore e dunque costruire un mondo non-violento. Al cristiano è chiesta una decisione etica fondamentale: essere testimoni di pace a qualunque costo. Certamente questo atteggiamento porta delle tensioni inevitabili perché chi vuole la pace di Cristo deve, come lui, rifiutare decisamente ogni specie di falsa pace anche a spese di insuccessi e sofferenze. Il banco di prova della pace messianica è l’amore ai nemici[3].
L’atteggiamento interiore di non-violenza non consiste solo nella semplice rinuncia all’impiego della forza ma piuttosto nella decisione interiore di voler vincere il male con il bene. In realtà, siamo sempre tentati di essere unilaterali ed eliminare le difficoltà che si incontrano in conseguenza di questa decisione con atteggiamenti sbagliati. Il falso irenismo desidera la pace a buon mercato e rinuncia alla testimonianza alla verità, mentre il fanatico cieco impetuoso persegue la vittoria della causa della verità anche con l’impiego del rogo. L’uno compera la pace pagandola con l’indifferenza nella ricerca della verità e della giustizia, l’altro calpestando la verità e l’amore. Il primo diviene pacifista per pigrizia e per viltà, il secondo è portato a imporre con tutti i mezzi un sistema giusto di cose così come egli lo concepisce fino al punto di liquidare, con un’assurda logica, coloro cui quel sistema voleva imporre[4]. Il discepolo di Cristo invece combatte la battaglia per la pace vera soltanto con le armi dell’amore. E chi desidera impegnarsi in prima linea in questa lotta deve essere disposto a pagarne il prezzo.
Determinate, e il testo lo ripete più volte, è l’educazione dei giovani e la formazione degli adulti. Infatti, è assurdo e tempo perso parlare di guerra giusta o di assoluto pacifismo quando non si presta la dovuta attenzione alla promozione della pace sociale, dell’amicizia e della giustizia fra i popoli e non si compiono i sacrifici necessari per realizzare ordinamento pacifico e per la riconciliazione nella propria vita[5].
L’autorità tra non violenza e autorevolezza
Se è vero che i valori evangelici per i cristiani non sono solo una proposta opzionale ma un appello, cioè un invito seducente all’incontro tra due libertà, quella di Dio e quella dell’uomo, allora sia il discepolo che l’istituzione ecclesiale devono decidersi a coinvolgersi in modo totale. Quest’ultima, cioè, non può limitarsi a proclamare e insegnare razionalmente “cosa si deve fare” perché gli ideali non sono sovrapponibile a meri comandamenti a cui obbedire[6]. Certamente la chiarezza dell’annuncio e l’educazione della volontà hanno una loro importanza; tuttavia, non possono essere centrali altrimenti resistono solo le persone forti e decise per cui la formazione deve mirare a formare tali persone. Ma questo non dà gli esisti sperati. In più insinua l’idea che chi non ce la fa è perché è debole, oppure senza forza di volontà, relativista. Assolutizzare soluzioni opposte, non ce la faccio dunque non è possibile oppure, al contrario, non ce la faccio dunque sono debole, è un modo assai semplicistico di affrontare la sfida della formazione della coscienza.
Un’opportunità sarebbe quella di partire dall’identità – chi sei? quali criteri hai per dire che esisti? – per creare nuovi nessi tra l’uomo di oggi e i valori del vangelo ricordando che egli non agisce bene perché ha conosciuto bene ma apprende bene perché assorbito in una relazione significativa con l’altro. La propria identità è plasmata dall’incontro con l’alterità (personale e istituzionale) ben oltre l’accoglienza e l’empatia perché proprio in questo incontro è stimolata una diversa sintesi di ciò che si è.
È la prospettiva intersoggettiva che, coinvolgendo veramente l’intera comunità cristiana sia come istituzione sia come insieme di credenti, può favorire il consolidarsi di una coscienza non-violenta. Il focus viene posto in questo modo sulla relazione che si vive e non sulla continua proclamazione dei valori: l’internalizzazione di questi ultimi è così il risultato, a volte molto lento, della relazione tra l’educatore (cioè le istituzioni nella loro forma e le persone che le costituiscono) e chi viene formato. Tale relazione, in cui entrambi si giocano in modo sincero senza paura della lotta che ne può scaturire, è il medium di un cambiamento realmente significativo tanto da perdurare nella vita non solo nelle relazioni comunitarie. Nello spazio intersoggettivo chi è educato non si trova solo per cui proprio la presenza di chi educa (l’istituzione attraverso i suoi membri) gli permette di avere un nuovo sguardo su ciò che vive per esplorarlo e così viverlo in modo più umanizzante. Tale contesto empatico, ben lungi dall’essere una complicità assolutoria, è, al contrario, l’accettazione di condividere dal di dentro ciò che ciascuno vive nell’orizzonte della fede evangelica. Esso fa sì che la relazione e il dialogo diventino elementi effettivamente interpellanti, ad un tempo, sia la persona che l’istituzione. In questo modo si attua una comune internalizzazione della persona di Gesù che risponde a un desiderio sincero di essere più uomini secondo il modello di Cristo.
[1] B. Häring, La morale del discorso della Montagna, Edizioni Paoline, Alba 1969.
[2]Ibid. 7-10.
[3] Ibid. 240-242.
[4] Ibid. 242.
[5] Ibid. 248.
[6] «Bisogna distinguere tra la dottrina che riguarda le verità di fede e quella che riguarda la morale ma non bisogna separarle. Esporre le verità di fede come con accento prevalentemente polemico contro gli erranti, spezzettando di conseguenza la sintesi della verità cristiana in semplici proposizioni che fanno appello agli interventi all’intelletto, significa qualcosa come annacquare il vino. La fede può essere insegnata e comunicata agli altri in maniera giusta solo da un cuore gioiosamente credente sotto forma di professione e di testimonianza. Il messaggio della fede è una testimonianza e racchiude in sé stesso impulsi potenti, capaci di trasformare la vita. Alla stessa maniera bisogna evitare il moralismo. Il Vangelo non ci offre una “semplice morale”. Le prescrizioni morali non sono mai isolate e a sé stanti ma promanano dal lieto messaggio portato da Gesù. […] La morale cristiana inoltre non è un sistema astratto. Essa consiste essenzialmente nell’incontro col Signore nella comunità dei discepoli. Solo la persona che ama è in grado di insegnare agli altri la morale della gioia e dell’amore» (Ibid., 31-32).
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