Dalla cultura dello scarto alla guerriglia narrativa

a cura di Matteo Losapio


Matteo Losapio è laureato in Filosofia presso l’Università degli Studi di Bari e ha conseguito il baccellierato in Teologia presso la Facoltà Teologica Pugliese. È membro della redazione della rivista di filosofia Logoi.ph e della redazione del giornale Cercasi un fine. Socio fondatore di Associazione 21 e del progetto PoliSofia, per la divulgazione del sapere filosofico, ha dato vita al sito www.makovec.it. 

La domanda posta da Anthony Palumbo, apre molteplici prospettive e spiragli di riflessione. Per rispondere alla quaestio, ci soffermeremo su tre parole chiave utilizzate: iperglobalizzata, scarto, consumatore. A titolo di preambolo ci occorre affermare che le tre parole, come le riflessioni che svilupperemo sono intrinsecamente collegate, il che spinge ad un ulteriore complessificazione della realtà.

Una società iperglobalizzata

Partendo dal tema della iperglobalizzazione, ci rifacciamo agli studi e alle riflessioni di Marc Augé. Siamo ormai abituati a definire il tempo che stiamo vivendo come modernità liquida, in contrapposizione alla modernità solida terminata con il Secondo Dopoguerra e il crollo delle ideologie del Novecento. Si tratta di una interpretazione della nostra epoca coniata da Bauman, condivisibile o meno. Augé, invece, offre un’altra prospettiva attraverso la: surmodernitè. La surmodernità è definita per il suo prefisso, sur, come modernità accelerata. La tecnica e la tecnologia, la rapidità delle informazioni, la possibilità di costruire rapidamente e l’invasione delle merci da un punto all’altro del globo, costruiscono un’epoca in cui le distanze si riducono e il pianeta si restringe. Frutta proveniente da ogni parte del globo si riversa nei nostri supermercati, flussi continui di informazioni arrivano nelle nostre case e sui nostri smartphone, dalla guerra in Ucraina al terremoto in Siria e Turchia, dall’arresto di Matteo Messina Denaro all’ultimo abito di Sanremo. Immagini che provengono da ogni dove, organizzazione della vita secondo itinerari, scadenze e tragitti caratterizzano l’epoca della surmodernità. E l’essere umano, sempre più globale e occidentalizzato, si ritrova ad essere un fruitore di spazi impersonali e, paradossalmente, fortemente identitari che Marc Augé chiama nonluoghi.[1] Simbolo di quest’epoca, l’iperglobalizzazione ha trasformato il nostro modo non solo di consumare o di acquistare merci ma tutto il mondo in un grande ipermercato. Il monumento simbolo di quest’epoca è l’Ipermercato, tempio della nuova religione globalizzata, in cui poter trovare di tutto proveniente da ogni parte del mondo. Ed è l’ipermercato-mondo che dà forma ai vissuti spaziali delle città e, secondo Augé, anche al tempo dell’iperglobalizzazione, un tempo senza passato e senza futuro, perennemente schiacciato sul presente: spettacolarizzato, informatizzato, spendibile, vendibile, consumabile.[2] Basterebbe farsi un giro il sabato o domenica pomeriggio per trovare ingorghi stradali nelle vicinanze dei centri commerciali, nuovi templi della religione del consumo. Un sistema che economico e, di conseguenza, finanziario, politico e sociale produttore e riproduttore di scarti.

Un’economia dell’esclusione?

Fin dalle pagine di Evangelii Gaudium, papa Francesco rilegge la società contemporanea sotto l’egida di una economia dell’esclusione, un’economia che produce scartati.[3]  La cultura dello scarto evidenzia come i sistemi economici abbiano prodotto un paradigma e un sistema di pensiero che rende sordi alle aspettative e al grido dei più poveri. L’idea di una economia capitalista della mano invisibile, per cui le ricadute del libero commercio e del libero scambio di beni individuali sarebbe andate a vantaggio di tutti si è rivelata essere un’idea ingenua e grossolana, quanto quella del collettivismo economico. Abbiamo ingenuamente creduto che il capitalismo potesse essere il solo sistema economico vincente. Per questo motivo, con il passare del tempo abbiamo assistito ad un incremento del libero mercato, ad uno smantellamento delle forme assistenziali pubbliche (Welfare State) e ad un capitalismo sempre più globalizzato, aggressivo, sfrenato e ineguale. È questo sistema che ha prodotto e riprodotto non solo povertà ma scartati. Il passaggio che papa Francesco ci invita a compiere, infatti, riguarda non solo le diseguaglianze economiche ma una visione ecologica della povertà e della ingiustizia nell’utilizzo delle risorse. Insomma, non solo poveri a cui bisogna prestare attenzione, ma scartati da un sistema che si appropria delle risorse, inquina, sfrutta, devasta e pretende di controllare vita e morte di intere popolazioni. Parlare di scartati, dunque, significa entrare nei gangli di un sistema capitalista che genera sistemi di pensiero (culture) fra chi è dentro e chi è fuori, fra chi ha accesso alle risorse e chi non può avere accesso, chi è da una parte della linea tracciata e chi dall’altra. In questa focalizzazione degli scartati non vengono prese in considerazione solo e soltanto le risorse economiche ma la possibilità di accesso a ciò che garantisce la sopravvivenza umana, ai beni comuni. Basti, a tal proposito, rileggere la Laudato si’, la quale ha segnato, a parer mio, una svolta nella considerazione ecologica e non solo economica degli scarti e del bene comune. Nell’epoca degli scartati, interessanti tornano le considerazioni di Marco Armiero con la sua definizione di Wasteocene, l’epoca degli scarti.[4]

Non solo consumatori, ma produttori responsabili

Nell’era degli scarti, non siamo solo consumatori responsabili ma produttori responsabili. Internet, social network, percorsi per strada o in auto, preferenze sugli acquisti, coockies, tutto il sistema economico e mediatico non funziona soltanto in termini di consumo ma di produzione. Ogni consumatore non è solo colui che consuma un prodotto ma, al tempo stesso, colui fornisce dati e produce informazioni sul suo modo di consumare, sullo scegliere i prodotti, sulle sue preferenze. I consumatori sono una grande banca di produzione di dati che stabilisce la linea di demarcazione fra ciò che è consumabile e ciò che non lo è, fra ciò che è utilizzabile e ciò che è scartabile. In questo modo siamo, volontariamente o involontariamente, responsabili dei prodotti, gestori indiretti dell’economia di mercato. Seguendo l’intuizione di Armiero, potremmo proporre azioni di guerriglia narrativa, riprendendo questa idea dal progetto Toxic Bios (http://www.toxicbios.eu/#/about) il quale si occupa di denunciare, attraverso la narrazione, episodi di contaminazione, sfruttamento, inquinamento dei territori. Una responsabilità che ci vede non solo consumatori critici, ma anche capaci di inventare, ascoltare, rintracciare nuovi e alternativi modi di vivere partendo dalle città, dai territori che abitiamo, dalle comunità parrocchiali. Una narrazione che ci veda sempre più autenticamente responsabili e sappia intersecare la pastorale con i paradigmi culturali, con le sfide urbane, con l’analisi dei territori in cui insiste e in cui annuncia il Vangelo. Fino a trasformare la pietra scartata dai costruttori in testata d’angolo, una meraviglia ai nostri occhi (cf. Sal 117).

[1] Cf. M. Augé, Nonluoghi. Introduzione ad una antropologia della surmodernità, Elèuthera, Milano 2009.

[2] Cf. M. Augé, Che fine ha fatto il futuro? Dai nonluoghi al nontempo, Elèuthera, Milano 2009.

[3] Evangelii gaudium, 54.

[4] Cf. M. Armiero, L’era degli scarti. Cronache dal Wasteocene, la discarica globale, Einaudi, Torino 2021.

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