L’uomo e l’AI: una nuova antropologia?

L’essere umano e la grazia

Il drammaturgo tedesco Heinrich von Kleist in un suo testo significativo racconta dell’incontro con il primo ballerino dell’Opera della città[1]. Costui anima un teatro di marionette in un giardino pubblico, davanti allo sguardo dei curiosi. Il narratore è stupito da questa sua occupazione e gli pone alcune domande alle quali questi risponde descrivendo la grazia delle marionette che oltrepassa infinitamente quella di qualsiasi danzatore. Cosa rende uniche le marionette? Il fatto che non siano segnate dall’affezione, concepita come un disordine capace di produrre la coscienza nella grazia naturale dell’uomo. Il narratore non può fare a meno di rimanere estasiato dallo charme del suo interlocutore, al quale augura un giorno di potere riprodurre il movimento che egli intravedeva nelle marionette. Per Kleist allora la perdita della grazia sembra essere l’entrata dell’affezione e la perdita di una innocenza che, per lui, solo lo stato animale o la meccanica delle marionette custodiscono. In maniera tale che per l’essere umano si aprirebbero due sole vie: ritrovare una conformazione del corpo che non ha alcuna coscienza o meglio ancora acquisire una coscienza infinita. Il primo caso sarebbe una sospensione elettiva della coscienza di sé capace di lasciare libero il corpo di eseguire il suo esercizio. Il secondo caso sarebbe quello di gustare nuovamente il frutto dell’albero della conoscenza, ultimo capitolo della storia del mondo: divenire Dio.

Questo sguardo domanda però cosa si intenda per grazia. La grazia sarebbe solo un possesso statico? Non è piuttosto un elemento dinamico che innesca e sostiene nell’umano la capacità di attivare nelle sue relazioni verticali e orizzontali un potenziale di vita e di comunione autentica? Sarebbe davvero sufficiente sospendere la coscienza o entrare in un nuovo ordine di conoscenza per vivere nella grazia? Le questioni sono antiche, ma poste in maniera nuova dalla tecnoscienza e chiedono una messa alla prova del nostro immaginario. Certamente qui si apre uno scenario fecondo per un apporto del pensiero credente al modo di essere umani nella sua relazione con gli oggetti tecnologici.

Una relazione complessa

L’uomo e l’intelligenza artificiale rappresentano una relazione affascinante e complessa. Sono infatti molteplici gli interrogativi fondamentali su cosa significhi essere umani e quale sia il nostro ruolo nel contesto di un mondo in cui la presenza della tecnologia è pervasiva.

Dal punto di vista filosofico, l’avvento dell’intelligenza artificiale (IA) ci costringe a porre in questione molte delle nostre concezioni tradizionali sull’essenza umana. Se un’intelligenza non biologica può imparare, adattarsi e persino creare, in che misura ciò differisce dall’intelligenza umana? La coscienza, l’autoconsapevolezza, l’etica: sono queste caratteristiche esclusive dell’essere umano o possono essere replicate, almeno in parte, dalle macchine? Nell’immaginario di un mondo abitato da macchine intelligenti sembra quasi si possa fare a meno del corpo: quale ruolo esso invece gioca?

Inoltre se le facoltà richiamate poco fa, possono essere simulate o addirittura superate dalle intelligenze artificiali, quali implicazioni ha questo per le nostre concezioni di divinità, creazione e destinazione umana? La teologia deve adattarsi a un mondo in cui l’intelligenza non è più una prerogativa umana?

La domanda antropologica sembra in un certo senso mutare: cosa può un essere umano? L’essere umano è un animale che fa fatica ad esserlo, ed affronta la sua finitezza cercando di valicarla. Il pensiero ebraico-cristiano ha espresso questa tensione attraverso il ritenere gli umani a immagine e somiglianza di Dio: genere speciale di creature che, pur condividendo la loro natura con il resto della creazione, possiede una particolare relazione con Dio, inaccessibile a tutti gli altri esseri creati[2].

In tal senso è sembrato logico, per lunga parte della storia del pensiero filosofico-teologico, legare la specificità umana e l’immagine di Dio all’intelligenza. Già con le nuove conoscenze scientifiche concernenti la cognizione animale, tuttavia, si è notato come l’intelligenza non sia una capacità così tipicamente umana come si era supposto. E la stessa intelligenza umana è multipla, per seguire la teoria di H. Gardner[3]. Inoltre, come ha evidenziato la riflessione di Gilbert Simondon la relazione dell’umano con gli oggetti tecnologici è antica, per cui il confine tra umano, naturale e artificiale è sempre stato in gioco nel definire il modo di esistenza degli attori implicati[4].

Un umanesimo della relazione

Luciano Floridi ha sottolineato come con Turing sia cambiata la nostra antropologia filosofica[5], laddove «il confine tra umano, naturale e artificiale si rivela (…) estremamente labile e confuso, se non addirittura esso stesso artificiale»[6]. In questo orizzonte il dibattito sembra vertere sui risvolti etici dell’intelligenza artificiale. Eppure l’etica riposa sempre sull’antropologia, la quale si interessa di cosa sia veramente un essere umano, e cosa egli possa. In fin dei conti, la questione del potere sembra essere alla radice delle paure rispetto ad una intelligenza artificiale che diventi strumento di controllo tecnocratico che lascia ai margini i più fragili. L’immagine dell’umano è strettamente legata ai valori che la orientano. Da un lato dunque ci troviamo di fronte alla consapevolezza che è possibile anche un depauperamento del pensiero umano, come ha posto in rilievo il filosofo tedesco Markus Gabriel, quindi una sua resa all’intelligenza artificiale[7]; dall’altro emerge l’idea di un uomo aumentato nelle sue potenzialità[8].

La prima questione tuttavia si tramuta anche in una possibilità positiva, lì dove il pensiero umano è chiamato a scorgere in sé ciò che lo caratterizza nella sua relazione con altri e con la realtà e quindi a scoprire che il suo conoscere è segnato affettivamente e dischiude scarti in cui si dà una prossimità non simulabile. Basti pensare agli studi di Antonio Damasio. Nella seconda questione, ovvero l’idea di uomo aumentato, questa si pone su una sorta di riduzionismo dell’umano, in quanto l’apporto di un dispositivo all’umano accade su parti del cervello, ed una visione algoritmica dell’essere umano, apparirebbe così fortemente povera. I metodi di apprendimento profondo dell’intelligenza artificiale sui quali si concentra un certo interesse, sono lontani dalla complessità del vivente. Per questo il mito di potenziare le funzioni dell’umano di alcune correnti di pensiero, modificando il genoma o intervenendo sul cervello, o astraendo delle determinazioni biologiche, si scontra con questa impasse. L’ideale della macchina digitale, che si eleva al di sopra delle pesantezze biologiche per andare verso la figura del cyborg invulnerabile, appare piuttosto limitante.

Tale vasto orizzonte che a grandi linee abbiamo richiamato sembra quindi rinviare alla opportunità di abitarlo nel solco di una responsabilità per l’Altro, come elaborazione di un co-immunismo – per richiamare Peter Sloterdijk – ovvero un irrobustimento del sistema immunitario del nostro spirito. Il vivente in generale e l’essere umano in particolare non sono delle macchine di intelligenza artificiale, così come le concepiamo oggi. Contrariamente ai viventi la macchina non ha corpo, un sentire, dei sentimenti o delle emozioni. Essa può simulare, ma non può provarlo in una storia. La macchina ha una data di fabbricazione, ma non ha propriamente una nascita. Per quanto con essa si possa dare una interazione.

Dunque la storia, l’affezione, un pensiero cordiale, come ciò che situa l’essere umano in una relazione con il reale nel quale è capace di prossimità, nel Verbo incarnato. L’intelligenza artificiale con le sue sfide e potenzialità interpella sul nostro modo di essere umani crescendo in questa relazionalità responsabile.

[1] H. Kleist von, Il teatro delle marionette, tr. it. di L. Traverso, il Melangolo, Genova 2005.

[2] Cf.C. Bethschart, L’humain imago Dei et l’intelligence artificielle imago hominis?, in «Recherche de Science Religieuse», 111/4, Octobre-Decembre 2023, 643-659.

[3] Cf. H. Gardner, Formae mentis. Saggio sulla pluralità dell’intelligenza, tr.it. di L. Sosio, Feltrinelli, Milano 2013.

[4] Cf. G. Simondon, Del modo di esistenza degli oggetti tecnici, tr.it. di A.S. Caridi, Orthotes, Napoli 2021.

[5] Cf. L. Floridi, Pensare l’infosfera. La filosofia come design concettuale, tr. it. di M. Durante, Raffaello Cortina, Milano 2020, 130.

[6] M. C. Amoretti, Introduzione. Sul confine tra umano e artificiale, in: Id. (ed.), Natura Umana Natura Artificiale, Franco Angeli, Milano 2010, 7-41, 30.

[7] Cf.M. Gabriel, Pourquoi la pensée humaine est inégalable. La philosophie met l’intelligence artificiel au défi, JC Lattès, Paris 2019.

[8] Cf.R. Gaillard, L’homme augmenté. Futurs de nos cerveaux, Grasset, Paris 2024.

Antonio Bergamo, presbitero dell’Arcidiocesi di Lecce, è docente di antropologia teologica ed escatologia presso l’Istituto Teologico Regina Apuliae della Facoltà Teologica Pugliese e presso  l’ISSRM “don Tonino Bello” di Lecce.

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