Una nuova Babele? Adolescence e il problema del linguaggio

La serie tv Adolescence pone numerose domande non solo di ordine pedagogico, ma anche etico. Sollecitati dal quesito di fra Francesco Maddalena, Gabriele Raschi e Letizia Tomassone ci hanno già aiutati a trovare le strade per  una “maschilità non tossica”. Ora, con questo post, Roberto Massaro, in continuità con quanto pubblicato finora, ci offre un’ulteriore pista di riflessione per educare a un linguaggio rispettoso e non ostile. L’autore è professore straordinario di teologia morale presso la Facoltà Teologica Pugliese e invitato presso il Pontificio Istituto Accademia Alfonsiana di Roma. Ha all’attivo pubblicazioni che spaziano dalla bioetica all’etica sessuale e familiare. Dirige la rivista Apulia Theologica e la collana Theologica ed è membro esperto della Consulta dell’Ufficio Nazionale di Pastorale familiare.

Cringe… chill… brò… e ancora ghostare… snitchare… triggerare. Sono solo alcuni dei termini molto usati nel gergo giovanile, che il mondo degli adulti fa fatica a comprendere. La Gen Z utilizza uno slang incomprensibile per i Millenials. Siamo su una nuova Torre di Babele… nessuno comprende più la lingua dell’altro (cf. Gen 11,1-9).

La serie TV Adolescence, che in queste ultime settimane stiamo sviscerando sul nostro blog sollecitati dalla domanda di fra Francesco Maddalena, mostra in modo drammatico questo divario generazionale e così, afferma Gabriele Raschi, «corriamo il rischio di vivere divisi» oppure, sostiene Letizia Tomassone, continuiamo a «proporre l’amore reciproco e l’umiltà come vie di accesso alle relazioni», ma persistiamo nel «vivere pratiche di potere».

In questo divario generazionale – in verità tipico di ogni tempo – il linguaggio rappresenta un vero e proprio abisso. Faccio riferimento, in modo particolare, alla seconda puntata della serie Netflix. Il detective Luke Bascombe, che conduce le indagini sull’omicidio di Katie e che ha arrestato e interrogato Jamie, cerca qualche indizio sul movente dell’efferato gesto nella scuola frequentata dai due adolescenti, in cui studia anche suo figlio Adam. L’uomo sembra davvero brancolare nel buio, impacciato in un mondo che non comprende. Adam – anche lui isolato e bullizzato – interviene cercando di spiegare al padre le dinamiche sotterranee della relazione tra Jamie e Katie. Quest’ultima aveva bullizzato Jamie, accusandolo di essere un “incel” (celibe involontario appartenente alla “manosphere” una comunità misogina di uomini eterosessuali che attribuiscono alle donne e alla società il loro insuccesso in campo sentimentale). Tutto questo si svolge sulla piattaforma social Instagram, dove l’emoji di una pillola rossa esplosiva – ripresa dal celebre film Matrix – è simbolo del risveglio alla presunta “verità” nascosta dietro le dinamiche di genere (che invece il femminismo tenderebbe a falsificare). Una serie di cuoricini colorati – che, probabilmente, noi adulti utilizziamo in base alle nostre personali preferenze cromatiche – sarebbe un velato commento alle affermazioni postate su Instagram: rosso significa amore, viola eccitazione, giallo interesse sessuale, rosa interesse non sessualizzato, arancione invito alla tranquillità.

Ne sono consapevole. Probabilmente il lettore si sarà già perso… Credo, tuttavia, che questo normale senso di smarrimento non debba farci cedere alla tentazione di pensare alle nuove generazioni come un mondo definitivamente perso. Dovrebbe, al contrario, farci concentrare sul linguaggio e sulla sua potenza performativa.

Si tratta, in primo luogo, di apprendere una nuova lingua straniera, composta di slang a noi sconosciuti, ma che lancia messaggi ben precisi. Questo è necessario soprattutto per comprendere cosa si cela dietro parole, acronimi, segni grafici che, per noi adulti, spesso risultano indifferenti ma che, a volte, possono essere veri e propri segnali di fumo, per chiedere aiuto o indicare pericoli.

In seconda istanza, quasi come attenti filologi, dovremmo cercare di capire come mai questo linguaggio ha dei tratti così fortemente misogini. Noi adulti siamo veramente incolpevoli? Pensiamo alla difficoltà che abbiamo a declinare al femminile alcuni termini professionali come avvocata, assessora, architetta, ecc. Pur essendo grammaticalmente corretti e non appartenendo al campo dei neologismi (“avvocata” è un termine che utilizziamo da secoli nella preghiera della Salve Regina), sono tantissime le resistenze ideologiche che impediscono tale uso. La grammatica qui c’entra poco… in molti fanno “semplicemente” fatica ad accettare che ruoli apicali nella società possano essere occupati, senza nessun problema, sia da maschi che da donne.

La lingua rispecchia quello che una società è e una società si manifesta attraverso la sua lingua. Tra realtà e parole c’è una forte connessione. Le parole, però, possono avere una forza enorme nel trasformare la realtà. Non accettare femminili professionali, deridere – anche nella Chiesa – le donne che raggiungono posizioni di comando attribuendo loro vezzeggiativi svalutanti (come parlare di “suorina” riferendosi a religiose con incarichi importanti, anche nella Curia romana) accentua, attraverso un linguaggio maschilizzato, abitudini patriarcali che stereotipizzano i ruoli che devono essere ricoperti dagli uomini e quelli che devono essere ricoperti dalle donne.

Infine, dovremmo tutti riscoprire la forza di un linguaggio non ostile, insegnando ai ragazzi – in famiglia, a scuola, in parrocchia e in tutti gli altri ambienti di aggregazione – la bellezza di un linguaggio che promuove e non sminuisce la dignità di ogni persona. Vorrei citare, a tal proposito, il Manifesto della comunicazione non ostile, redatto dall’Associazione Parole O_Stili, allo scopo di promuovere una cultura del rispetto e della consapevolezza.

  1. Virtuale è reale
    Dico e scrivo in rete solo cose che ho il coraggio di dire di persona.

  1. Si è ciò che si comunica
    Le parole che scelgo raccontano la persona che sono: mi rappresentano.

  1. Le parole danno forma al pensiero
    Mi prendo tutto il tempo necessario a esprimere al meglio quel che penso.

  1. Prima di parlare bisogna ascoltare
    Nessuno ha sempre ragione, neanche io. Ascolto con onestà e apertura.
  1. Le parole sono un ponte
    Scelgo le parole per comprendere, farmi capire, avvicinarmi agli altri.
  1. Le parole hanno conseguenze
    So che ogni mia parola può avere conseguenze, piccole o grandi.
  1. Condividere è una responsabilità
    Condivido testi e immagini solo dopo averli letti, valutati, compresi.
  1. Le idee si possono discutere. Le persone si devono rispettare
    Non trasformo chi sostiene opinioni che non condivido in un nemico da annientare.
  1. Gli insulti non sono argomenti
    Non accetto insulti e aggressività, nemmeno a favore della mia tesi.
  1. Anche il silenzio comunica
    Quando la scelta migliore è tacere, taccio.

Ripartire dall’educazione a un linguaggio non ostile può essere la via per riprendere la comunicazione tra generazioni, per scappare da quella Babele che ci divide e per scommettere su quella forza dell’amore che, come nel giorno di Pentecoste, fa sì che lingue diverse si comprendano e si accolgano reciprocamente (cf. At 2).

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