
Adolescence, la serie TV britannica che sta spopolando sulla piattaforma Netflix, mette a nudo non solo la difficoltà di dialogo tra adulti e adolescenti, ma anche alcune questioni cruciale per l’etica teologica come l’educazione affettiva, le questioni di genere, la maschilità tossica.
Ne parliamo in questo mese, a partire dalla domanda di un nostro studente, fra Francesco Maddalena ofm. La prima risposte è affidata al teologo morale Gabriele Raschi. Seguiranno due reazioni di Roberto Massaro e Letizia Tomassone.

La nota miniserie britannica che sta riscuotendo tanto successo è un dramma che coinvolge molti possibili aspetti della vita di qualsiasi spetta-tore: dalla coscienza educativa di un genitore davanti agli aspetti ignoti della vita di un giovanissimo figlio al mondo cinico e spettacolarizzato dei social con le dinamiche malate che vi si possono sviluppare.
Ad ogni modo, il tredicenne assassino protagonista di Adolescence non è malato né pazzo, ma imbrigliato in una cultura violenta e misogina che riduce la relazione tra uomo e donna in una lotta di conquista che produrrà inevitabilmente dei perdenti. Questa spirale d’odio, fra revenge porn e bul-lismo, trova le sue più atroci conseguenze nella violenza di genere.
È possibile partire da questo scenario per delineare quelli che sarebbero i tratti educativi per una “maschilità non tossica”, che sappia guardare all’alterità come opportunità e non come una minaccia?
Uscire dalla nostra quiete
La domanda posta richiede una risposta tutt’altro che scontata. Proprio a partire dalla miniserie televisiva dobbiamo interrogarci e scuoterci dalla nostra quiete e aprire gli occhi sulla realtà che ci circonda. Non possiamo far finta di niente trincerandoci dietro al fatto che il mondo sta cambiando e non riusciamo a comprendere quello spazio virtuale abitato dai nostri ragazzi, oppure che non riusciamo a stare al passo di una realtà in continua e veloce trasformazione. Mi permetto di fare un’analogia che spero non essere fuori luogo. La nostra attenzione globale sembra orientata all’emergenza ambientale e la valutazione corrispondente è questa: le temperature tropicali che stanno bruciando la nostra terra sono la dimostrazione che ciò che l’uomo fa ha delle conseguenze e ripercussioni a medio e lungo termine! Questa è una metafora di quello che stiamo vivendo in ambito educativo: un “emergenza educativa” che al pari dell’“emergenza ambientale” popola i media.
Come ci relazioniamo oggi con i nostri figli e i nostri giovani studenti ha una diretta conseguenza e ripercussione su ciò che faranno della loro vita nel breve e medio termine. Se mi guardo attorno vedo adulti che vorrebbero fare di tutto per rendere felici i ragazzi di cui sono responsabili e garantire loro di avere successo, ma nutro forti dubbi sul fatto che l’obiettivo di genitori ed educatori debba essere quello di garantire una vita più facile al giovane loro affidato. Sono convinto, invece, che la via verso la felicità, il figlio, la debba cercare da sé. L’obiettivo dell’adulto dovrebbe essere quello di aiutarlo a diventare un adulto che sa scegliere: un adulto competente a discernere il bene dal male.
Adulti e adolescenti: artisti di una stessa scultura
L’adolescenza è quella tappa che prepara a lasciare la familiarità della propria casa per vivere il mondo, ad abbandonare le proprie sicurezze per essere capace di affrontare l’ignoto – che sfida! – in altre parole dà la possibilità di diventare più completi. Questa preparazione non nasce dal nulla ma prende forma nella stessa “essenza” del ragazzo e permette alla passione di alimentare l’effervescenza delle emozioni e la forza che si sprigiona o che si scopre di avere dentro di sé per uscire da sé e creare rapporti sociali che si sviluppano fuori dalla propria famiglia. Il compito dei genitori e degli educatori, attenti a questa energia che si sprigiona nel ragazzo, deve essere quello di aiutare l’adolescente a capire e comprendere cosa davvero vuole.
Probabilmente il ruolo enorme attribuito dalla nostra società alla ricerca della felicità, sta depistando l’obiettivo che sta ancora più a monte, ossia quello di permettere ad un figlio di diventare un adulto responsabile e con un progetto di vita, un adulto consapevole di sé.
Noi genitori ed educatori siamo gli scultori che per primi lavorano il blocco di marmo, imprimendogli una prima forma, ma in seguito affidiamo gli arnesi del mestiere direttamente nelle mani dei nostri figli, i quali gli daranno la forma che giorno per giorno desidereranno. I genitori e i figli sono collaboratori per la realizzazione dello stesso progetto di crescita verso l’età adulta. Non a caso l’etimologia di adulto significa cresciuto (non solo fisicamente).
Orientarsi nell’“esosistema”
A intervenire in questo processo, tuttavia, non ci sono solo i genitori; c’è anche il mondo che sta fuori e che ospita i nostri figli, i nostri ragazzi. È fatto di persone e personaggi che si interfacciano con loro ma con i quali noi non possiamo stringere un’alleanza educativa. È quel mondo che psicologi e sociologi hanno definito “esosistema”, una sorta di ragnatela invisibile che avvolge tutti e che quotidianamente esercita potenti influenze senza che ce ne rendiamo conto e propone modelli cui ispirarsi, nel nostro oggi.
Un tempo ormai passato, l’esosistema era rappresentato dai media tradizionali: la tv, i giornali e le varie pubblicità influenzavano il contesto sociale e pubblico, ma in modo palese. Oggi il loro ruolo ha sempre meno importanza, mentre, al contrario, il sistema dei nuovi media, in particolare i social, stanno creando una realtà parallela che spesso lascia fuori il mondo adulto. Non c’è più una comunità bensì una community che detta regole e propone comportamenti da seguire pena il rischio di essere esclusi. Gli adulti sanno ben poco del mondo social frequentato dai propri figli. Se l’esosistema dei media tradizionali era ben visibile a tutti e quindi analizzabile, oggi invece corrisponde ad un mondo virtuale pressoché sconosciuto agli adulti. Nella miniserie Adolescence, questa tematica emerge in modo palese nel dialogo fra l’ispettore a capo dell’indagine di omicidio e suo figlio, che frequenta la stessa scuola degli indagati. È solo grazie al suo aiuto che il padre poliziotto riesce a vedere e decodificare i segni di un mondo nascosto dietro le quinte dei social che gettano l’intimità della propria vita nella piazza virtuale della community.
Il rischio di vivere divisi
Oggi il rischio che corriamo è proprio quello di vivere divisi: c’è il mondo reale in cui noi e i nostri figli sopravviviamo e poi c’è quello virtuale vissuto dai ragazzi in solitudine dentro gli smartphone che compulsivamente usano rinchiusi fra le quattro pareti della loro inaccessibile stanza: le camere dei nostri adolescenti si sono trasformate in veri e propri fortini nei quali non può entrare nessuno.
Non voglio certamente rispondere alla domanda partendo da un senso di colpa moraleggiante che ci fa battere il petto e chiederci cosa e dove abbiamo sbagliato. Aggiungeremmo solo un altro fardello al nostro vissuto di adulti ed educatori. È anche vero, però, che la situazione reale che stiamo vivendo è quella in cui emerge una relazione genitori-figli che è stata risucchiata in una sorta di buco nero senza neppure sapere il perché; ma così è! Questo genera un vuoto interiore e uno smarrimento nei ragazzi: non sanno dove andare. Ecco, una questione di senso di marcia, di orientamento.
La forza e la debolezza delle amicizie
La premessa alla domanda è stata chiara ed argomentata a partire dalla miniserie Adolescence. Condivido che il ragazzo tredicenne autore dell’omicidio della coetanea non sia né pazzo né malato, però è triste ed infelice. Il gruppo di amici vive la stessa esperienza di essere imbrigliati in quel esositema che fa credere normale una reazione di difesa violenta ad un atto di bullismo. Gli amici sono fondamentali nella vita di un essere umano, maschio o femmina che sia. Anzi, come non mai l’adagio popolare “dimmi con chi vai e ti dirò chi sei” è sempre più vero e contiene una profonda saggezza. Gli amici aiutano a costruire la propria identità. Gli amici sono un aspetto fondamentale della vita. Vuoi vivere all’altezza del tuo desiderio? Mettiti insieme ad altri che hanno la stessa aspirazione. Così ci si può sostenere. La forza dell’uno sorregge la debolezza dell’altro; nei momenti in cui uno fa fatica gli altri lo possono accompagnare. Se uno invece si mette insieme a gente che guarda verso il basso, non c’è niente da fare: prima o poi cede. L’identità nasce sempre da un’appartenenza. Per poter dire “io” con verità abbiamo bisogno di un “noi” che ci sostenga, ci accompagni, ci sorregga.
Nella serie Adolescence è stato rimarcato il coinvolgimento negativo degli amici, fino al punto che uno di loro presta il coltello con cui viene consumato l’efferato omicidio. È vero che il tredicenne omicida è stato bullizzato dalla compagna assassinata, ma non può essere questo il modo per liberarsi della etichetta negativa attribuitagli, quella di essere parte del gruppo che resterà solo, per quanto involontariamente, perché non attraente o semplicemente non oggetto di attenzione. Ma il mondo parallelo virtuale, dove gli influencer sono i nuovi modelli, non accetta i perdenti.
Criteri per una maschilità non tossica
Quindi alla domanda di fra Francesco Maddalena affermo che sì, è possibile, a partire dallo scenario proposto da Adolescence, delineare quelli che devono diventare i tratti educativi per una “maschilità non tossica”, che sappia guardare all’alterità come opportunità e non come una minaccia! Partire da quegli scenari non significa imitarli o copiarli; significa anche prendere le distanze di fronte ad un modello che sappiamo essere distruttivo. Un esempio negativo? Quello di vivere come separati in casa fra genitori e figli, dove ci si trova a mangiare insieme solo per necessità, dove il momento del pasto, invece che occasione di condivisione, diventa un tempo pesante da far passare il più velocemente possibile per poter poi fuggire verso la propria stanza iperconnessa con il mondo virtuale e sempre più lontana dalla realtà e dalle relazioni significative.
Nel film Adolescence è riproposta anche un’altra immagine positiva per guardare all’alterità come momento di crescita: il rapporto fra il padre e la madre del ragazzino protagonista del reato; la madre riesce a far calmare il padre, esprime tutta una dolcezza tipicamente femminile che scioglie il cuore del marito indurito sempre più dalla sofferenza causata dal figlio. Sarebbe interessante a questo punto fare una riflessione su come le caratteristiche che nella nostra società leghiamo al femminile (come la dolcezza) siano spesso considerate inferiori rispetto alle caratteristiche che associamo al maschile. Mi verrebbe da chiedere come verrebbe visto un ragazzo che si esprime normalmente con dolcezza. Penso proprio che una lotta alla mascolinità tossica possa passare anche attraverso la valorizzazione di queste caratteristiche.
Altro esempio dello stesso tenore, il ruolo della sorella del ragazzino protagonista: riesce ad aiutare i genitori a guardare avanti, a non scappare di fronte allo sguardo di giudizio dei vicini e dei conoscenti, che in automatico pensano al comportamento del figlio come a una diretta conseguenza di una mala-educazione dei genitori. Stiamo attenti a generalizzare un tale ragionamento: porterebbe a deresponsabilizzare il figlio in modo quasi automatico.
Concludo ricordando che mentre sto scrivendo è la V domenica di Quaresima anno C e il vangelo di oggi racconta l’episodio dell’adultera sorpresa in flagrante adulterio e condotta a Gesù dagli scribi e farisei per metterlo alla prova e trovare un capro espiatorio per condannarlo. La legge di Mosè prevedeva di lapidare donne del genere. Ebbene la risposta di Gesù è geniale: «Chi di voi è senza peccato getti per primo la pietra» (Gv 8,7). Detto in altro modo Gesù ha trovato il modo vero per curare una “maschilità tossica” che colpevolizzava solo una parte (in questo caso la donna), per guardare prima dentro di sé e riguardare poi l’altro da me. Detto in altri termini, questo è ri-spetto: riguardare, non fermarsi all’apparenza. Questo poi porta a fare verità dentro sé stessi, dentro il cuore e la mente di coloro che volevano far cadere in un tranello Gesù stesso. L’adulterio di cui sopra emerge quindi in una menzogna: l’obiettivo che si vuole raggiungere con la punizione è anche buono (la fedeltà), ma questo deve essere raggiunto anche con mezzo buono (e non è certo la lapidazione). Gesù non ha giudicato, ma ha colto l’occasione per insegnare che la vera comunità è quella in cui ognuno si guarda dentro per-donare all’altro l’opportunità di esser-ci e realizzarsi.
Per fare questo c’è stato bisogno di Gesù e oggi invece mi permetto di ricordare che è fondamentale riscoprire il ruolo dell’autorevolezza dell’adulto che non giudichi ma aiuti i figli a guardare dentro sé stessi con verità e imparino a non lapidare (a non accoltellare) chi non corrisponde ai propri desideri. Il rispetto dell’altro si traduce anche in non fare del male se l’altro mi ha offeso; l’invito è a lavorare per aiutare i nostri adolescenti ad avere quella sana e giusta autostima. Nello stesso tempo siamo invitati, proprio a partire da Adolescence, a sapere decodificare quel grido di aiuto dei nostri figli che si percepisce in mezzo al loro frastuono di musiche e messaggi spesso violenti, che trapela da quelle stanze chiuse. Stanze che spesso sono l’immagine del loro cuore.
Gabriele Raschi è cittadino della Repubblica di San Marino dove risiede. Sposato, padre di 3 figli,
insegna religione nel Liceo Scientifico della Repubblica di San Marino e Teologia Morale Familiare e Bioetica Interreligiosa presso l’ISSR delle Diocesi di Rimini e San Marino-Montefeltro e Bioetica e Teologia morale Fondamentale presso l’ISSR “Italo Mancini” dell’Università di Urbino. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo: Le condotte suicidarie negli adolescenti, ISB, Acireale (Ct) 2003, pp. 415; La bioetica sfida l’uomo, l’uomo sfida la bioetica, Il Ponte Vecchio Editore, Cesena (FC) 2009 (curatela con L. Gentili).

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