La domanda di Antonello Bruno, relativa alla storia di Angelo, ha suscitato una riflessione che ci ha portati ad approfondire i temi dell’ascolto e della cura. In quest’ultimo respondeo, parliamo, invece, della complessità del giudizio morale sulle scelte di fine vita, grazie al post del professor Vidas Balcius, ordinario di teologia morale presso la Pontificia Università Urbaniana di Roma. Balcius è autore di vari articoli su temi di medicina, di etica biomedica e di teologia morale fondamentale; tra le sue opere ricordiamo il manuale L’agire: tra virtù e opzione fondamentale (UUP 2016).
“La morte non è l’opposto della vita ma ne è una parte innata. Vivendo le nostre vite, nutriamo la morte” (Haruki Murakami, Norwegian Wood – Tokyo Blues).
La vita e la morte
È una verità semplice, ma che raramente diamo per scontata: non siamo noi a scegliere se nascere, perché non siamo noi a darci la vita. La vita è un dono, ricevuto e accolto dai genitori, e ci rende vivi. Una volta però entrati nel mondo della vita, non scegliamo il fatto di essere finiti e limitati. Infatti, l’unità della vita, intesa nella sua condizione esistenziale di spiriti incarnati, include la tensione tra il vivere e il morire. La morte, quindi, non è opposta alla vita, ma nella prospettiva spazio-temporale ne fa parte costitutiva in quanto si colloca come estremità consumatrice del percorso vitale: con la morte l’esistenza terrena nei termini di missione è compiuta. Dal momento in cui entrano nell’esistenza, gli esseri umani sono sempre esposti a un tale avvenimento. Non lascia indifferenti la considerazione a riguardo di Martin Heidegger: «La morte è un modo di essere che l’Esserci assume da quando c’è. ‘L’uomo, appena nato, è già abbastanza vecchio per morire’»[1].In questa prospettiva, parlare del momento giusto oppure ingiusto per morire perde la sensatezza: da quando e finché si è in vita, una tale eventualità è sempre aperta al presente. Questo vale anche per un cristiano, certamente in un qualche modo consapevole di essere creatura finita destinata all’eternità. Il vivere porta sempre allo stesso esito, la morte. Tuttavia, esistono le diverse via per arrivarci.
La morte: soggetti e percorsi diversi.
Non tutti muoiono di morte naturale, causata dall’età e dall’esaurimento delle forze vitali, e neppure dalle malattie che, pur applicando tutte le cure a disposizione, portano all’esito inevitabile.
Purtroppo, ci sono anche coloro che muoiono per la decisione degli altri: violenza omicida, guerre che uccidono in modo indiscriminato, carestie e altri disastri provocati dalle oscurità dei cuori e delle menti umane. Le stragi degli innocenti talmente ovvie nella loro malvagità sono talmente depersonalizzate che paradossalmente, pur rimanendo sconvolgenti, non impressionano più… Fanno parte della stessa sequenza le morti provocate, anche se coperte dalle presunte ragioni giustificanti le diverse tipologie dell’aborto direttamente procurato, incluse le nuove forme collegate con la produzione e la manipolazione degli embrioni umani, come pure l’eutanasia involontaria. La traccia comune di tutte le realtà indicate è la non coincidenza tra i soggetti che decidono e provocano la morte e il soggetto che muore.
Ci sono in più le morti ‘richieste’, quando il soggetto che muore è anche colui che decide e provoca o almeno reclama la propria morte: il suicidio, l’eutanasia volontaria in tutte le sue varianti, inclusa la morte volontaria assistita (‘suicidio assistito’). In considerazione del fatto che la persona umana di solito propende verso la conservazione della propria esistenza, le morti per propria scelta continuano a turbare e scuotono le coscienze, facendo sorgere la domanda: perché? A chi attribuire la responsabilità per la scelta così drammatica che sempre rivela la interiorità caratterizzata dall’incapacità di percepire la propria vita in quanto sensata vedendo come l’unico bene possibile la morte. E in che grado il soggetto può essere ritenuto responsabile?
Il morire: soggettività implicata e questione di responsabilità.
La seconda parte della locuzione di Murakami chiede una particolare attenzione: “Vivendo le nostre vite, nutriamo la morte”. Mi permetto una delle interpretazioni possibili. La stessa unità della vita evocata in precedenza rinvia a una verità importante: il senso percepito della nostra vita (‘cibarsi di vita’) si traduce inevitabilmente anche nel senso che attribuiamo alla nostra morte (‘nutrire la propria morte’) come parte costitutiva della vita stessa. La continuità evocata è dovuta all’unità dell’orizzonte di senso che si forma nell’intreccio della realtà oggettiva, nella quale si colloca la totalità del vivere della persona concreta e la realtà della sua interiorità dinamica (coscienza morale; consapevolezza e libertà) che si dà forma attraverso molteplici esperienze vissute e percepite dal soggetto come positive o negative, sensate o meno. Tale orizzonte, attivo a livello profondo ed essendo propenso verso una certa stabilità, rimane di continuo operante nel vivere, decidere e agire della persona e difficilmente può cambiare improvvisamente. Nel nostro caso, i dinamismi descritti acquistano una grande importanza perché non è difficile immaginare come la vita intera, percepita come un fallimento e priva di senso tenda a tradursi in un finale drammatico, cogliendo la morte come unico ‘bene possibile’. Qui non si tratta di alcuni momenti isolati, nell’orizzonte di una vita percepita come degna di essere vissuta; si tratta, invece, dell’incapacità soggettiva di cogliere l’interezza della vita in quanto sensata. Alla domanda sulle possibili ragioni del fenomeno evocato la risposta non è mai pienamente chiara. Sicuramente chiedono attenzione speciale la struttura psicologica personale, i condizionamenti della libertà, la conoscenza nozionale e la capacità di tradurla nel senso esistenziale, la maturità della coscienza morale, la forza morale a disposizione, la qualità etica della realtà relazionale effettivamente sperimentata e l’esperienza di fede, vissuta come incontro con Cristo e come evento di coscienza. In casi simili si tratta sempre delle reali storie personali in cui la morte come evento provocato è solo una conclusione di un vero dramma iniziato molto prima – il lacerarsi, passo a passo, della capacità di percepire la propria vita come sensata.
La domanda che ritorna è questa: anche se è giusta e perennemente proponibile a livello generale l’affermazione della vita come degna di essere vissuta sempre, che cosa possiamo conoscere del cuore di un essere umano concreto, della soggettività esistente nella propria concretezza e della sua capacità di capire e di scegliere? Il giudizio morale oggettivo implica sia l’oggettività della realtà, di cui fa parte indubbia anche la comprensione assiologica della vita come valore umano fondamentale, da proteggere e da promuovere, sia la condizione oggettiva del soggetto, cioè la capacità oggettiva di percepire e cogliere il senso delle realtà, insieme con la reale libertà per scegliere. Rimarrà, quindi, sempre da chiedersi se e in che modo questo soggetto, nella sua condizione personale, riesca a cogliere, riassumere e tradurre in una decisione esistenziale positiva tutti gli elementi eticamente rilevanti, il valore della vita incluso.
La centralità affermata del soggetto permane: insieme però con il suo mistero nel vivere e morire. Questo vale anche nel caso della persona credente. La sicurezza di fede non consiste nella garanzia di riuscire in questo mondo sempre e in tutto. La sicurezza di fede consiste nella certezza dell’amore perdonante e salvante del Dio personale e nel credere che quest’Amore ci abbraccia pure nelle situazioni complesse e disperate, incoraggiando ognuno ad affidarsi incondizionatamente a Lui. Perché Egli è la Via, la Verità e la Vita (cf. Gv 14,6) ed è venuto perché tutti “abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza” (Gv 10,10).
In rapporto alla possibilità delle scelte drammatiche sul fine vita Klaus Demmer scrive: «la comunicazione di un senso definitivo alla storia (offerto da Cristo) rende impensabile una situazione storica che sia definitivamente priva di senso e quindi occasione di un atto disperato»[2]. È vero: se l’incontro con Cristo è avvenuto in modo da trasfigurare l’interiorità del soggetto, rendendo realmente operativa la sua coscienza morale come coscienza cristiana, la sua luce non lascia offuscato nessuno spazio dell’esistenza concreta. La situazione però non è sempre così perfetta. Resta il fatto che la stessa comunicazione di un senso definitivo alla storia – la storia di salvezza offerta da Cristo – rende impensabile che Dio non riesca a “scrivere dritto anche sulle righe storte” del vivere e decidere umano iscrivendo l’intera esistenza, la morte inclusa, nell’orizzonte di vita del Risorto, vita offerta per tutti (cf. GS 22).
Buona Pasqua! Cristo è Risorto!
[1] Essere e tempo, Longanesi, Milano 1976, 300.
[2] “Eutanasia”, in F. Compagnoni et al. (eds.), NDTM, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 1990, 397.
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