Fra Luca Santato, 48 anni, frate minore cappuccino della Provincia Veneta. Ha conseguito il baccellierato in teologia e la licenza in teologia pastorale pratica e teologia pastorale sanitaria. È stato guardiano della fraternità di Asolo (Treviso) e da 7 anni vive nella Custodia Generale del Mozambico dei frati cappuccini. È guardiano della fraternità formativa di Maputo, opera a servizio di numerose comunità cristiane, del carcere e del Progetto Fattoria Sociale.
Alla domanda di Marco Ruggiero desidero rispondere con una breve esperienza relativa al mio ministero di frate cappuccino presso il carcere maschile di Maputo localizzato a Machava. La criminalità e la violenza, a tanti livelli, insidia anche il contesto del Mozambico, in particolare la capitale di Maputo dove mi trovo a vivere già da qualche anno.
Una realtà complessa
La questione delle carceri è davvero molto complessa e soprattutto la stessa giustizia penale subisce manipolazioni e strumentalizzazioni che arrecano danno alla dignità delle persone coinvolte in reati, alle vittime e alle rispettive famiglie. La corruzione infatti e spesso anche la giustizia fai-da-te cancella il processo riabilitativo della pena, che in questo contesto non ha alcuna possibilità di realizzazione, eccetto in pochissimi casi. Tuttavia “abitare il limite” di coloro che commettono reati o sono imprigionati ingiustamente è il linguaggio più immediato da attivare.
L’esperienza concreta
Un primo momento di condivisione è quello vissuto ogni giovedì, in cui i detenuti si incontrano per organizzare la liturgia della Parola, i canti e preparare con gessi colorati un grande disegno che rappresenti il tema delle letture. Dietro la sedia del sacerdote c’è una lavagna grande a muro. Su questa lavagna i giovani disegnano e cercano di raccontare le letture proposte. Questa esperienza settimanale mi permette di cogliere la loro interpretazione del concetto di giustizia e di misericordia, attraverso un linguaggio così diretto e semplice che noi cristiani “liberi” dovremmo forse ascoltare di più e assumere come stile.
Un secondo momento direi di condivisione è la celebrazione eucaristica che si svolge all’interno di uno dei tanti padiglioni del carcere ogni domenica alle 9.30. La cosa bella è che allo stesso orario le varie confessioni religiose vivono il loro momento comunitario di preghiera. Fa un certo effetto questa contemporaneità rituale ed è emozionante vedere che tante persone di religione diverse si affidano alla preghiera per trovare un senso alla loro vita segnata dalla detenzione in carcere. Si radunano per la messa circa 100 detenuti tra ragazzi, giovani e adulti. Sono reclusi tutti insieme e questo è già un dato allarmante, soprattutto per la presenza di minorenni.
Il giorno dell’Eucaristia domenicale viviamo un momento di condivisione dove loro raccontano la loro vita, il loro vissuto settimanale, cercano di rappacificarsi con il loro passato, pregano per le loro famiglie. A volte in loro è presente una forma di odio e di protesta per il fatto che sono reclusi, ma posso dire che emerge sempre un grande senso di fede e l’umiltà nel chiedere aiuto al Signore.
Un terzo momento di condivisione è l’ascolto personale dei detenuti. Pensate che il primo documento che ho ricevuto per entrare in carcere è stato un permesso di soli 45 minuti esclusivamente riservati alla celebrazione eucaristica. Tuttavia il tempo non è sufficiente, perciò naturalmente mi è stato concesso di poter restare di più con loro al fine di dedicarmi al dialogo personale e al sacramento della riconciliazione. Emergono storie di sofferenza, di solitudine, di sconforto, alcuni di loro hanno tentato il suicidio per la vergogna di essere in carcere o di essere abbandonati al loro destino. Tanti di loro non ricevono visite dai propri familiari e nemmeno hanno contatti, non riescono a ricevere notizie su come stanno i loro figli.
Una possibilità di riscatto?
Di fronte a tutto questo precariato umano e affettivo affiora però chiaramente in loro il desiderio di riscattarsi, di cercare di dare un senso nuovo alla loro vita, di pensare e progettare la loro storia oltre il muro del carcere, sognando l’aria della libertà al fine di iniziare una nuova vita in senso dignitoso. È molto difficile lasciarsi invadere dalla misericordia di Dio, annunciarla poi in un contesto di vita così drammatico dove mancano le condizioni minimali di dignità è una sfida quotidiana. Riparare al male con processi educativi o prevedere forme di giustizia riparativa qui è davvero un’utopia. Il dibattito a livello culturale e sociale è quasi inesistente, ma nonostante tutto insieme ad altri sacerdoti assicuriamo la nostra vicinanza.
Ogni volta che li saluto prima di uscire dal carcere, dopo aver celebrato la messa, da parte loro c’è sempre una sola domanda: Fra Luca domenica prossima ci vediamo? Loro mi stanno insegnando che il fatto di ascoltare chi soffre, chi è solo, chi ha bisogno di parlare, di sfogarsi, è forse l’esperienza umana più forte che si possa vivere. Offrire il nostro tempo è in fondo ricevere. In varie forme ricevo gratuitamente sorrisi e sguardi che mi fanno capire la felicità di persone che desiderano incontrarsi, almeno incontrarsi, per ridimensionare la quotidiana reclusione, solitudine e sofferenza umana e psicologica che li affligge. Porto a tutti i lettori di questo blog il loro saluto e la loro voce di condivisione.
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