Una indulgenza senza pena? Dieci punti per riflettere

Sin dalla sua prima indizione del primo giubileo nel 1300, con la bolla Antiquorum habet fida relatio di Bonifacio VIII, l’anno giubilare e le indulgenze hanno sempre avuto uno stretto legame. Ma come rileggere oggi questo rapporto? Abbiamo chiesto al teologo Andrea Grillo di offrirci qualche delucidazione e in merito.

Andrea Grillo, nato a Savona nel 1961, insegna dal 1994 Teologia dei sacramenti e Filosofia della Religione a Roma, presso il Pontificio Ateneo “S. Anselmo” e Liturgia a Padova, presso l’Abbazia di “Santa Giustina”. È padre di Margherita e di Giovanni Battista. Autore del blog Come se non, ha al suo attivo numerose pubblicazioni. Tra le più recenti, ricordiamo: Fare penitenza. Ragione sistematica e pratica pastorale del quarto sacramento (2018); Cattolicesimo e (omo)sessualità. Sapienza teologica e benedizione rituale (2022); Se il sesso femminile impedisca di ricevere l’ordine. Ventiquattro variazioni sul tema (2023).

Quando giunge il tempo del Giubileo, torna anche il tema delle “indulgenze”. Nonostante il fatto che anche il magistero, a partire da Paolo VI e poi con Giovanni Paolo II e infine con Francesco, abbia introdotto diverse novità nel modo di intendere il termine e le pratiche ecclesiali, la “macchina amministrativa” della Penitenzieria Apostolica non ha mutato la logica dei suoi Decreti. Per capire meglio, dobbiamo tornare indietro di almeno 800 anni, ossia a prima che iniziasse la storia dei Giubilei cristiani e cattolici, chiedendoci in quale senso il termine “indulgenza” fosse compreso e la pratica avesse un fondamento teorico. Gli sviluppi moderni e contemporanei hanno mutato molte cose, che chiedono a noi oggi una ricomprensione piuttosto difficile.

  1. Alla radice dell’istituto delle “indulgenze” sta una comprensione del sacramento della penitenza che noi non capiamo più. Il sacramento, che non è pensato in alcun modo come una “devozione” del battezzato, ma come un “rimedio alla scomunica”, implica una correlazione strutturale tra dono di grazia, attestato dalla “assoluzione”, e risposta di libertà, che consiste nel “lavoro” del cuore, della bocca e della azione, come “atti del penitente”.
  2. Questo assetto teorico e pratico si è sviluppato insieme ad una evoluzione che dalla penitenza “canonica” è approdata alla “penitenza auricolare e tariffata”. Ad un modello pubblico e comunitario si è lentamente sostituito un modello privato e individuale. Questo mutamento ha modificato anche la sequenza degli atti, fino a collocare normalmente la assoluzione prima della risposta corporea del penitente (definita “penitenza” o “soddisfazione”). I teologi così hanno introdotto una distinzione nuova: la assoluzione supera il peccato-colpa e la pena eterna, ma non supera la “pena temporale”, che resta appunto come compito di elaborazione sofferta da parte del soggetto penitente, per la sua guarigione.
  3. La “pena temporale” è dunque la sporgenza della risposta del soggetto perdonato rispetto al perdono assicurato dalla misericordia di Dio. È evidente che, almeno in origine e con certezza, il tema della “pena temporale” era legato alla coscienza e alla storia del soggetto penitente, che entrava nella “grazia cooperante” del sacramento, con un lento percorso di risposta laboriosa. La pena è “temporale” non soltanto perché non è eterna, ma perché non è istantanea, ha bisogno di una lenta rieducazione del soggetto nel tempo.
  4. Il Giubileo infrange festivamente questa logica feriale e lo fa a buon diritto: raramente e solo in alcuni luoghi è possibile che la “remissione dei peccati” diventi, istantaneamente, “remissione delle pene”. Questo può avvenire solo “a certe condizioni”, che sono appunto contingenze temporali e spaziali in cui il soggetto intensifica una relazione ecclesiale (nel tempo, nello spazio, nella preghiera) per riconoscersi graziato anche sul piano del “lavoro della risposta”.
  5. Già il medioevo aveva iniziato ad “applicare” questa logica “festiva” non solo ai vivi, ma anche ai defunti. Pur mantenendo ancora molto chiara la base storica ed esistenziale del concetto di “pena temporale”, aveva iniziato a pensarla come la condizioni delle anime del purgatorio e quindi ad applicare ai defunti la remissione delle pene “lucrata” in contesto giubilare. Questo modo di pensare (e di parlare) era fondato su una concezione del sacramento della penitenza che non dipende dal “senso del peccato” (di cui noi oggi saremmo privi), ma dal modo di pensare la differenza del sacramento della penitenza dal sacramento del battesimo.
  6. Un utile indizio per capire questa differenza ci viene dalla fase moderna. La traduzione apologetica della tradizione da parte del Concilio di Trento difende a buon diritto un principio ragionevole e fondato, ma lo assume largamente come “conservazione del potere” in capo al papa e alla chiesa gerarchica. Questa lettura continua ad offrire del sacramento della penitenza la ragione della differenza dal battesimo proprio sul piano della laboriosità: “poenitentia laboriosus quidam baptismus” (la penitenza è un battesimo laborioso) resta un criterio decisivo con cui i padri tridentini definiscono il ruolo del IV sacramento. Ma la formalizzazione “giudiziale”, che assume caratteri moderni, facilita una progressiva emancipazione della “pena temporale” dal contesto del sacramento, per farla diventare una sorta di “appendice” alla vita post-mortem.
  7. La recezione moderna di Trento costituisce un’altra tappa preziosa. Uno dei documenti più impressionanti, che attestano questa “deriva formalistica” del sacramento della penitenza, sono le Lettere provinciali di B. Pascal, dove si legge, nella famosa Lettera 10, questa frase:
«Se il penitente dichiara che vuol rimandare all’altro mondo la penitenza e soffrire in purgatorio tutte le pene che gli sono dovute, allora il confessore deve imporgli una penitenza leggerissima tanto perché il sacramento sia intero, e soprattutto se si accorge che quello non ne accetterebbe una maggiore» (Pascal, Le provinciali, Torino, Einaudi, p. 108)
  • Questa visione, pur segnata dalla polemica di Pascal, attesta uno sviluppo del sacramento in cui il ruolo della “pena temporale” cambia strutturalmente. Qui è sancita la irrilevanza sacramentale della pena temporale, che oggi è diventata una sorta di regola non scritta.
  1. Lo sviluppo contemporaneo ha potuto arrivare al capovolgimento del rapporto tra sacramento della penitenza e istituto delle indulgenze. Se la irruzione festiva della indulgenza aveva il compito di “rimettere” una dimensione di pena che la celebrazione di un sacramento della penitenza aveva messo in azione, ora accade il contrario, ossia che la “remissione della pena” (non tanto propria, quanto di un “altro” defunto) chiede la confessione sacramentale come un “requisito” preparatorio. Una inversione che dimostra, chiaramente, la riduzione del sacramento a semplice devozione e la perdita del senso della pena temporale.
  2. Di fronte a questa deriva, che non appare neppure percepita dai Decreti della Penitenzieria Apostolica, la teologia e il magistero non sono rimasti inerti. Da un lato la teologia (soprattutto con K. Rahner) ha spostato la comprensione della indulgenza dall’esercizio del “potere delle chiavi” alla “preghiera della chiesa”: non è santificazione, ma culto. Dall’altro si è preferito il singolare “indulgenza” come sinonimo di misericordia e come riferimento più generale ad una dinamica di conversione del sacramento. Resta l’impressione che oggi il Giubileo possa essere luogo di possibile riscoperta della dinamica “cooperante” tra grazia e libertà. Anziché sostituzione festiva di una dinamica feriale, piuttosto riscoperta festiva di una pena che il perdono indirizza al buon uso della libertà, che non è mai soltanto gratuito, ma sempre anche laborioso.
  3. Il classico “potere delle chiavi”, o la più antica (e più recente) “preghiera della Chiesa” permettono una spiegazione teologica di una dinamica ecclesiale, sociale e personale di “remissione della pena”, articolando il “processo penitenziale” con cui il battezzato elabora “laboriosamente” il perdono del proprio peccato grave. Se questo lavoro appare teologicamente rimosso, come ha teso a proporre una interpretazione unilaterale del sacramento della penitenza negli ultimi due secoli, non si può in alcun modo giustificare né la applicazione del tesoro della Chiesa, né la preghiera ecclesiale come “remissione” di qualcosa che non ha alcuna consistenza nella vita e nella esperienza dei soggetti. Forse è stato proprio questo unilaterale spostamento della “applicazione” delle indulgenze sul piano “amministrativo” ad aver convinto i fedeli di poter ricevere, “mere passive”, sia la remissione del peccato, sia la remissione della pena. Il recupero di significato dell’indulgenza, nella sua origine, indica invece una decisiva “cooperazione” tra grazia e libertà. Questo è il suo lato serio, che non si può comprendere solo come una invadenza da parte di un preteso “ex opere operato”, garantito però solo “iuris causa”, da parte di una burocrazia che sorveglia in quale modo le indulgenze siano correttamente “lucrate”.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Pagina che raccoglie i materiali, le informazioni e le riflessioni inerenti ai corsi e ai seminari del prof. Giorgio Nacci, del prof. Roberto Massaro e del prof. Gianpaolo Lacerenza. Per info contattare: info@promundivita.it

Press ESC to close