a cura di Marino Colamonico
Giovane diacono della Diocesi di Altamura-Gravina-Acquaviva delle Fonti, è collaboratore presso la parrocchia S. Eustachio in Acquaviva delle Fonti. Si è laureato in Economia e finanza presso la Luiss Guido Carli con una tesi in Business crisis and debit restructuring ed ha conseguito il Baccellierato in teologia presso la Facoltà Teologica Pugliese.
Consumo, dunque sono. Così il noto sociologo Zygmunt Bauman, nel titolo di una sua opera, riassume il paradigma di vita della società dei consumatori. Parafrasando la celebre massima cartesiana “Cogito ergo sum”, si può ritenere, infatti, che il consumo rappresenti una dimensione esistenziale fondamentale dell’uomo di questo tempo. Le scelte di acquisto e di consumo di beni e servizi, infatti, coinvolgono tante dimensioni dell’umano, dal lavoro al tempo libero, dalla nascita alla morte, dagli affetti alla sessualità, nel mondo reale e persino in quello virtuale. In tal modo ogni uomo abitando la possibilità come un consumatore, sviluppa la propria identità e le proprie relazioni e progetta la sua vita verso un bene percepito. Ne consegue che l’atto del consumare, anche nelle sue forme più semplici, è atto di tutta la persona, coinvolgendo la libertà, i desideri, i valori, la memoria. Ciò rende molto complesso qualsiasi tentativo di fare una valutazione morale. Allora se il consumare, per l’uomo contemporaneo, rappresenta davvero una postura di stare nel mondo, ci si potrebbe domandare: che ruolo può avere il consumatore con la sua libertà e la sua responsabilità in una società consumistica? Quale bene può orientare le sue scelte? È un soggetto destinato al mero godimento o può contribuire alla costruzione della giustizia?
Tra homo oeconomicus e homo civicus
Certamente gli economisti oggi sono concordi nel ritenere che all’interno del sistema economico il consumatore, inteso come un individuo o una famiglia, rappresenti «l’unità economica fondamentale che determina quali beni e servizi vengono acquistati e in quali misura»[1]. Si tratta, quindi, di un soggetto che ha un grande potere nel mercato, soprattutto nell’ipotesi di un’azione collettiva, perchè con le sue scelte può influenzare la determinazione della curva di domanda di un determinato bene o servizio in relazione a numerosi fattori: il prezzo, le sue preferenze, le quantità richieste, i suoi bisogni e la sua capacità di spesa. Tramite la configurazione di questi cerca di massimizzare la sua soddisfazione. Tale questione, nei secoli, non ha riscontrato molta attenzione da parte degli economisti, che non si sono mai allontanati dagli assunti dell’economia marginalista. Questa scuola considerava il consumatore un homo oeconomicus, dotato di un sistema di preferenze noto e consolidato, in grado di compiere le scelte da attore economico razionale, orientato a massimizzare la sua utilità, una grandezza quantitativa considerata assoluta. Nonostante l’ampio consenso, ci sono stati economisti appartenenti alla scuola dell’Economia Civile, che hanno affrontato il problema partendo da una visione antropologica differente. «L’uomo prima di essere massimizzatore di utilità è cercatore di senso, che riscontra prevalentemente nella qualità della sua vita di relazioni, e la sua soddisfazione di vita aumenta nella misura in cui la sua vita ha un impatto positivo sulla vita di altri esseri umani».[2]Secondo questa scuola il consumatore è un homo civicus, capace di essere generativo e dotato di una sua razionalità massimizzante, perché non perde di vista la reciprocità, l’altruismo e l’avversione verso le diseguaglianze.
L’urgenza di un consumatore responsabile
Dinanzi ai drammatici effetti della cultura dello scarto è urgente che ognuno si scopra un consumatore civicus, solidale con i fratelli e il creato, capace di giocare un ruolo da protagonista nel mercato. Tutto questo si può concretizzare se il consumo diventa responsabile, cioè si realizza «un’azione di consumo e risparmio in cui la/il cittadina/o consum-attore, informato e consapevole, valuta non solo la qualità e il prezzo dei prodotti e dei servizi, ma anche il valore sociale in essi contenuto e l’impatto ambientale dell’impresa che li produce, tutelando il proprio interesse e quello della collettività nel medio e lungo periodo».[3] Il consumo allora può essere un mezzo per creare nuove relazioni economiche e sociali, per formare nuovi agenti economici e per generare una cultura orientati allo sviluppo umano integrale. Non per altro «la ricerca della giustizia ha portato tanti ad andare oltre le logiche assistenzialistiche e caritatevoli sulla base di una più accurata lettura delle radici storiche delle ingiustizie attuali e attraverso strumenti innovativi per la loro capacità di coniugare dimensione locale e globale, scelte personali e modifiche strutturali».[4] Infatti negli ultimi anni si sono diffusi numerosi movimenti che cercano di inserire valutazioni etiche volte a liberarsi da logiche consumistiche dentro ogni scelta economica, per recuperare il giusto rapporto con gli “scartati” e con l’ambiente, dando vita a numerose buone pratiche.
[1]D. Salvatore, Microeconomia. Teoria e applicazioni, Franco Angeli, Milano, 2010, 89.
[2] Cf. L. Becchetti – G.A. Forte, «Economia civile», in Credere Oggi 2(2021), 10.
[3] Cf. ASVIS, «Position paper 2021. Gruppo di lavoro sul Goal 12» in www.asvis.it, 34, consultato il 27-03-2022.
[4] L. Gaggioli, «Per una teologia dei consumi. Vita e Bibbia», in Rivista di Teologia Morale 3(2002), 395.
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