Martedì 14 marzo si è svolto presso l’Aula “Aldo Moro” del Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università degli studi di Bari un Convegno organizzato dalla Facoltà Teologica Pugliese con la partnership dell’Università e dell’Arcidiocesi di Bari sul tema Sulle sponde del Mediterraneo. Teologia e prassi di dialogo, di inclusione e di pace. Nella sessione mattutina, intitolata Apulia mediterranea: pensare la fede in contesto, è intervenuto il prof. Antonio Autiero, docente emerito di Teologia morale presso l’Università di Münster. Abbiamo colto l’occasione per intervistarlo e per chiedergli, alla luce della sua brillante relazione, alcuni focus sulle sfide che il nostro contesto pone al “fare teologia morale”.
Professor Autiero, nelle conseguenze che lei ha elaborato sulle sfide poste dal contesto al pensare la fede e al fare teologia, ha indicato tre punti. Il primo di questi è la questione del metodo che necessita di mettersi in ascolto delle “storie di vita”. Potremmo intenderla come la riscoperta di una nuova casistica?
La domanda è molto interessante perché accostare e mettere in connessione la categoria di “storia di vita” e la categoria di casistica, aiuta sia l’una che l’altra a meglio definirsi. Prima di tutto aiuta la casistica a ritrovare quello che oramai da alcuni decenni si sta già facendo anche in teologia morale: percorrere una pista di comprensione che non sia debitrice al modo con cui si valutava la casistica nel passato. Si discreditava molto, perché la si considerava appartenente ad una specie di finzione, come fosse una costruzione soltanto astratta, finta, appunto, e non reale. Oggi, invece, gli studi sul metodo casistico e la sua riscoperta come approccio ai casi della vita – cioè alle realtà della vita – porta la casistica stessa a essere più valorizzata, al di fuori dal contesto dispregiativo del passato. Quindi, c’è una reciproca illuminazione tra la categoria di “storia della vita” o “storia delle vite”, e quella di casistica.
Il secondo punto è una “nuova agenda”. Per la teologia morale del mediterraneo i punti sembrano chiari: accoglienza delle persone LGBTQIA+; il ruolo delle donne; la salvaguardia del creato… Quali sono le urgenze a suo avviso e come affrontarle?
Quando parlavo di urgenze, non mi riferivo soltanto a quelle tipiche del contesto emergente nell’ambito del mediterraneo, quanto piuttosto al fatto che ogni contesto fa emergere le proprie urgenze. La considerazione del contesto in teologia fa sì che si presti attenzione a quelle emergenze che di volta in volta i contesti vengono a mettere in evidenza. Quello che lei citava – per esempio l’emergenza dell’urgenza di una nuova considerazione di politiche e di riflessioni etiche sull’accoglienza verso quei gruppi che prima abbiamo considerato come marginali – di per sé non vale solo per il mediterraneo, vale per ogni contesto, solo che di volta in volta va contestualizzato in base all’esigenza che il contesto stesso richiede. La lista che lei faceva è una lista molto opportuna e la teologia viene sfidata a prendere in considerazione queste urgenze.
Terzo: un nuovo stile che porti a una “flessibilizzazione della verità” e a un “ripensamento del relativismo”. Un piccolo focus ci sembra necessario per l’etica teologica: la questione gender ci invita a ripensare il maschile e il femminile, ma spesso questo ripensamento si scontra con una cultura biologista e determinista. Cosa può dirci, invece, l’ascolto attento di queste teorie?
Proprio il riferimento che lei fa agli approcci etici molto debitori a una matrice di carattere naturalistico – dove per naturalismo si intende il porre al centro un concetto biologistico di natura – ci fa capire come si può cadere facilmente in una forma di assolutizzazione di una realtà che invece nella sua genesi, nel suo sviluppo, e quindi anche nel suo vincolo morale, deve essere considerata con criteri di carattere storico. Il carattere storico, infatti, abbatte ogni barriera di assolutismo e aiuta a comprendere come, relativamente a un periodo, un’epoca, un contesto, i modi con il quale si pone attenzione alla sfera del corporeo devono essere ripensati e rimodulati. Per quanto riguarda il concetto di “flessibilizzazione della verità” posso capire che qualcuno possa avere “una sorta di ansia”, come se corressimo il rischio di rinunciare a concetti di verità fino a sviluppare un’etica senza verità, ma non è questo ciò che voglio affermare. La mia intenzione, piuttosto, è quella di evidenziare come si costruiscono le nozioni che poi noi dichiariamo vere, o comunque riconosciamo come vere. Esse maturano sempre dentro un contesto storico-culturale, non in astratto. “Flessibilizzare”, perciò, vuol dire stare attenti alla genesi dei processi con cui si generano talune affermazioni.
Allora, sarà facile vedere come tante formulazioni da noi ritenute così da sempre e per sempre vere, in realtà, nel loro processo genetico e nella loro storia degli effetti, sono relative a determinate esigenze e funzioni, rispondono a questioni inerenti particolari epoche storiche e vari contesti di vita, rimandano a funzioni che vanno sempre e comunque ripensate. Questo è “flessibilizzare la verità”. Non è né rinuncia, né negazione, ma è situare le affermazioni da noi ritenute vere, imparando a comprenderle sempre nel loro contesto storico.
Sentiamo spesso parlare della categoria di fluidità appartenente all’attuale contesto postmoderno o anche postumano e applicata a diversi ambiti quasi esclusivamente con un’accezione negativa. È possibile che questa categoria di fluidità possa essere l’inizio di una rinnovata ricerca in ambito morale?
Io direi innanzitutto che la necessità di fare ricorso al concetto di fluidità è un indicatore. Indicatore del fatto che l’uso assertorio del ritmo binario, maschile o femminile, giorno o notte, bianco o nero – come l’uso assertivo dei concetti in generale – porta sempre a essere poco attenti sia alla loro genesi, ma anche agli effetti che un uso assertorio dei concetti può produrre, come ad esempio, la violenza nei confronti di chi non sta comodamente dentro l’uno o l’altro. Ricorrere al concetto di fluidità mette in evidenza il nostro bisogno di non cadere nella trappola assertoria dei concetti.
L’aspetto positivo di questo termine è legato ad un dato oggettivo: la ricerca di identità è dinamica, percorre sempre delle tappe che sono di evoluzione e involuzione, una specie di processo a spirale, che torna su se stesso e aumenta di intensità. È evidente come questo processo non può essere catturato da una gabbia concettuale rigida… e questo è il bello della fluidità.
Un’ultima attenzione. Lei ha parlato della dottrina delle circostanze che nasce in ambito medievale e poggia sulla metafisica aristotelico-tomista (differenza tra sostanza e accidenti). Le circostanze, pertanto, modificano o cancellano la responsabilità personale? Il contesto dunque è periferia, perché al centro è l’oggettività dell’atto, o è centro, perché modifica l’oggetto stesso? Volendo porre il contesto al centro, dunque, la persona con la sua storia e le sue predisposizioni (tenendo conto anche delle recenti scoperte neuroscientifiche), come cambia la dottrina delle circostanze? Basta cambiare il focus sul contesto mantenendo intatta la metafisica di riferimento?
Domanda complessa. La storia ci può dare una lezione. Chi ha studiato bene questo tema della dottrina delle circostanze ha messo bene in evidenza il modo in cui la costruzione concettuale aristotelica (distinzione tra sostanza e accidenti), riportata attraverso la lettura di Tommaso d’Aquino e attraverso la ricezione nel medioevo di Aristotele, è entrata nel discorso teologico-morale.
Sappiamo che già allora la teologia è andata un passo più avanti rispetto alla stretta accezione aristotelica del rapporto tra sostanza e accidenti, tant’è vero che, già allora, nella teologia morale si è posta la questione sul se e in che modo le circostanze potessero influire e modificare la specie della moralità dell’atto. Già il medioevo aveva capito che non bisognava soltanto trasportare lo schema aristotelico, ma andare oltre. Oggi noi siamo in condizione di capire ancora di più questo passaggio genetico, cioè che le circostanze non modificano parzialmente soltanto qualcosa di quello che comunque sarebbe normativamente già definito nel suo nucleo sostanziale, ma è tipico della moralità dell’atto il suo essere riportato alla densità costitutiva del soggetto, alla moralità dell’agente. Le circostanze, pertanto, in questo quadro di comprensione non sono più solo delle modificazioni periferiche di un atto che nel suo nucleo che resta invariato. Ma le circostanze sono il contesto reale, cioè il riflesso e il portato della storia di vita in cui si trova il soggetto agente. E visto che la moralità dell’atto va ricavata non dall’oggettività dell’atto, ma in rapporto con l’ethos, l’atteggiamento, l’intenzionalità e la responsabilità dell’agente, allora evidentemente qui le circostanze hanno un peso molto maggiore, diventano non periferia di un atto in sé, magari parzialmente modificabile, ma il luogo in cui geneticamente nasce l’atteggiamento morale e nasce la moralità, una moralità non più dell’atto, ma della persona.
a cura di Emanuele De Michele
studente al IV anno di teologia
Istituto Teologico “Regina Apuliae”
della Facoltà teologica Pugliese
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