a cura di Giorgio Nacci
Presbitero dell’Arcidiocesi di Brindisi-Ostuni, ha conseguito la laurea magistrale in scienze pedagogiche presso l’Università del Salento e il dottorato in teologia morale presso l’Accademia Alfonsiana di Roma. È docente incaricato di teologia morale fondamentale e di metodologia teologica presso l’Istituto Teologico Regina Apuliae della Facoltà Teologica Pugliese. Con Edacalf-LUP sta pubblicando il volume Formare presbiteri accompagnatori nel discernimento morale. Criteri per un progetto pedagogico. Con Roberto Massaro e Gianpaolo Lacerenza cura il blog di promundivita.it
Questione di metodo: è il punto di partenza della risposta del prof. Pizzichini (docente assistente presso l’Accademia Alfonsiana in Roma) alla domanda posta dagli studenti del seminario teologico (III e IV anno dell’Istituto Teologico Regina Apuliae in Molfetta) nel quale si stanno interrogando su come è possibile costruire oggi una teologia della coscienza che tenga conto dell’originale apporto delle neuroscienze. Pizzichini sembra metterci in guardia da una possibile falsa partenza: il dialogo tra la teologia morale e la neuroetica deve considerare la differenza delle domande dalle quali la ricerca si avvia (e dunque delle differenti risposte a cui giunge), così da costruire tra esse un rapporto maturo in cui ri-scoprire la funzione ermeneutica che una scienza può svolgere nei confronti dell’altra. Non poteva essere altrimenti, dato che gran parte dello sforzo di ricerca dottorale del nostro autore si fonda innanzitutto su un modo nuovo di declinare metodologicamente il rapporto tra teologia e neuroscienze.
Pizzichini, a chi vuole interessarsi di etica teologica (dunque sia pastori o che teologi), richiama una evidenza sulla quale ci sentiamo di concordare pienamente: «È innegabile che il dialogo con le neuroscienze imponga alla teologia morale un suo radicale ripensamento (nel senso letterale di ripensare le sue radici)».
In questo post, nei limiti consentiti, cercheremo di ampliare il senso di questa sua affermazione partendo da quanto egli afferma sulla questione metodologica per poi approfondire brevemente due immediate conseguenze che ne derivano, riguardanti il modo di strutturare una teologia della coscienza e la sua formazione.
Per un dialogo efficace
La svolta antropologica della teologia, i cui albori sono rintracciabili nel Concilio Vaticano II, è il presupposto sul quale si è reso possibile, in questi anni, un tentativo di integrazione tra la teologia morale e le neuroscienze. L’uomo, nel dinamismo del suo agire in Cristo, è divenuto il punto di incontro tra le diverse epistemologie e i diversi metodi di ricerca che regolano la scienza teologica e le scienze umane. Proprio questa diversità, da un lato, evidenzia la fatica di un dialogo che, come afferma Lonergan nella sua opera Il Metodo, deve innanzitutto riconoscere le «differenze di orizzonte» proprie di ogni scienza. Tra di esse, oltre a quelle dialettiche e genetiche, Lonergan sottolinea il valore delle differenze complementari grazie alle quali la diversità della ricerca diventa appunto complementarità, possibilità di collaborazione costruttiva. Il modello di rapporto che si profila è, perciò, quello di un dialogo transdisciplinare, distante da modelli gerarchici (la mia verità è più importante della tua) o da modelli funzionali (ascolto e mi informo solo su ciò che serve alla mia teoria) perché capace di affrontare l’oggetto della ricerca nella sua complessità (in senso etimologico), sotto i diversi punti di vista, in una prospettiva che non è la somma dei diversi contributi, ma lo sguardo globale possibile grazie alla loro integrazione. Era così che Piaget intendeva la transidisciplinarietà, un metodo che non si accontenta «di raggiungere interazioni tra ricerche specializzate, ma verrebbe a situare tali legami all’interno di un sistema totale, senza frontiere stabili tra le discipline».[1] Indagare “l’orizzonte uomo”, pertanto, è possibile a partire dal riconoscimento della teologia e delle neuroscienze come discipline omologhe. Nessuna, tra esse, può avanzare una pretesa di esaustività su tutti gli aspetti riguardanti la persona e il suo agire, ma una scienza può certamente aiutare a comprendere ciò che l’altra immediatamente non considera o, semplicemente, non si domanda. Si comprende, quindi, il valore della funzione ermeneutica evidenziata dal prof. Pizzichini: le neuroscienze possono aiutare a comprendere meglio la coscienza come situata nella vita di una persona e la teologia può aiutare a fuggire uno sterile scientismo per ricollocare l’agire dell’uomo in una prospettiva assiologica, secondo un fine che metta in gioco la propria libertà.
Una teologia della coscienza “in prima persona”
Veniamo alle conseguenze di questo proficuo dialogo transdisciplinare in relazione al radicale ripensamento a cui è chiamata la teologia morale fondamentale, con un particolare riferimento alla coscienza.
Il dibattito sulla coscienza è ancora in atto e nessuno studio finora elaborato ha il sapore della definitività sulla questione. Certamente, però, possiamo evidenziare almeno due punti di non ritorno utili alla nostra riflessione. Innanzitutto, va riconosciuto che molti studi neuroscientifici, nel definire la coscienza, danno per assodata l’inadeguatezza della prospettiva riduzionista secondo la quale gli stati mentali coincidono esclusivamente con gli stati celebrali, privando la coscienza della sua “eccedenza” rispetto al fenomeno biologico. Viene garantito dunque “uno spazio” nel quale la persona può essere definita tale al di là del suo funzionamento neuronale. Al tempo stesso, le neuroscienze confermano un dato assodato ormai anche nella tradizione morale: la coscienza non è mai considerabile come tabula rasa, perché è sempre inserita in una biografia personale. Non solo; le tecniche fMRI, oltre a consegnarci visivamente le tracce dell’unità dello “spirito incarnato”, ci consentono di registrarne anche la sua unicità dato che, come afferma Edelman, non esistono due coscienze identiche. Dinanzi ad uno stesso stimolo, seppur due soggetti reagiscono con una medesima risposta, l’attività del cervello si configura in ciascuno di loro in modo diverso. Dunque, se possiamo misurare l’attività dei mirror neurons, non è possibile fare altrettanto con l’intenzione della coscienza che determina un atto morale. Dal punto di vista etico questo dato è fondamentale. La teologia morale, nell’atto di acquisire una visione antropologica sempre più autentica, non deve limitarsi a chiedersi, secondo la prospettiva essenzialista, che cosa è l’uomo ma, ancorandosi ad una prospettiva fenomenologica, deve piuttosto domandarsi chi è l’uomo, per poter cogliere, si, la natura dell’uomo, ma dall’interno di un chi, cioè di una persona unica, irripetibile, storicamente determinata. Siamo dinanzi ad una grande sfida: è possibile strutturare una teologia della coscienza “in prima persona”, dove gli aspetti storici e personali non siano considerati “accidenti”, ma elementi sostanziali per cogliere la realtà ontologicamente fondata della persona credente? La riflessione teologica sulla coscienza, nell’incessante sforzo di comprendere e rendere fruibili i dati della Rivelazione, più che su idealismi o ricostruzioni astratte, dovrà articolarsi a partire da quanto le analisi dell’esperienza messe a disposizione dalle neuroscienze ci consegnano. Basti pensare a cosa potrebbe significare poter comprendere meglio il senso della soggettività, o ridefinire il ruolo delle passioni-emozioni nel discernimento morale o, ancora, in che modo lo Spirito rende la coscienza luogo di incontro con Cristo e di risposta alla sua carità. Ci sembra che quanto abbiamo detto finora vada nella direzione di allargare il senso di quello che Pizzichini ha definito la comprensione della coscienza come «parte di quella vita personale che siamo ciascuno di noi».
Una formazione della coscienza “in prima persona”
Certamente, una conseguenza fondamentale del dialogo transdisciplinare tra le nostre due discipline, riguarda propriamente la formazione della coscienza in prima persona. I confini di questo post – è evidente – non ci permettono di affrontare la questione nella sua interezza e complessità. Ci limitiamo perciò ad alcune considerazioni. Fuori da ogni accezione deterministica, la plasticità delle connessioni neuronali ci mette dinanzi al ruolo fondamentale della formazione come possibilità per rendere la coscienza consapevole della sua storicità, ma anche maggiormente libera da condizionamenti in essa vissuti. Certo, molta strada è ancora da compiere per capirne i confini e le strategie pedagogicamente più efficaci per definire quella che Lonergan chiama l’oggettiva «soggettività autentica».
Ma ancor più pregante è il contributo che le neuroscienze possono dare al modo di comprendere la formazione. Sappiamo bene il ruolo primario delle emozioni nella strutturazione della risposta morale e sappiamo anche il peso che può avere il pensiero razionale quando interagisce nel modo corretto con esse. Eppure, buona parte della formazione della coscienza morale è ancora relegata dentro schemi prettamente contenutistici, come se bastasse conoscere cognitivamente la verità morale per essere in grado di attuarla. La teologia morale deve tenere sempre più presente il fatto che questa verità, per quanto universale e immutabile, non si consegna mai al di fuori di relazioni interpersonali e storicamente determinate. La natura relazionale della coscienza messa in risalto dalle neuroscienze può essere una risorsa per rendere la formazione un contesto intersoggettivo in cui accompagnare “in prima persona” nel discernimento dei propri vissuti morali personali.[2] Si pensi, ad esempio, a come la prospettiva formativa possa contribuire a ridefinire, in prospettiva teologico-morale, la legge della gradualità o la categoria del bene possibile.
Teologi e neuroscenziati bilingui
Quanto presentato a commento del post del prof. Pizzichini non è che un abbozzo delle strade percorribili per approfondire il dialogo tra teologia morale e neuroscienze. Il suggerimento ci sembra quello di diventare discipline “bilingui”, capaci di conoscersi, comprendersi e parlarsi, senza pregiudizi o ambiguità. In questo modo si rende concreto il principio dell’incarnazione che deve guidare la teologia, consentendo alla riflessione morale di non staccarsi mai dalla riflessione sull’uomo. Non dall’uomo generico, ma dall’uomo di oggi. Perché la sua storicità è rivelativa anche per una teologia della coscienza che voglia dirsi in prima persona.
[1] J. Piaget, «L’épistémologie des relations interdisciplinaires», in Bulletin Uni-information 31(1973) 17.
[2] Cf. G. Nacci, Formare presbiteri accompagnatori nel discernimento morale. Criteri per un progetto pedagogico, EdAcAlf-LUP, Roma 2023.
Lascia un commento