Il bene passo passo

Giorgio Nacci, presbitero dell’Arcidiocesi di Brindisi-Ostuni, ha conseguito la laurea magistrale in scienze pedagogiche presso l’Università del Salento e il dottorato in teologia morale presso l’Accademia Alfonsiana di Roma. È docente incaricato di teologia morale fondamentale e di metodologia teologica presso l’Istituto Teologico Regina Apuliae della Facoltà Teologica Pugliese. Con Edacalf-LUP ha pubblicato il volume Formare presbiteri accompagnatori nel discernimento morale. Criteri per un progetto pedagogico. Con Roberto Massaro e Gianpaolo Lacerenza cura il blog di promundivita.it

          Gradualmente, progressivamente, un po’ alla volta. Così il vocabolario italiano esprime il senso della locuzione avverbiale con cui si apre il nostro post. Il suo significato mostra una certa assonanza con quanto ha affermato il prof. Sabatino Majorano nel primo contributo della riflessione di questo mese sul rapporto tra coscienza, libertà e discernimento. Egli, infatti, ha posto l’accento sulla libertà non come un dato acquisito a priori, ma piuttosto «come un processo di liberazione», nel quale «si procede passo dopo passo, secondo i ritmi e le possibilità di ognuno». In questa prospettiva si comprende la funzione che il concetto di bene possibile può svolgere come categoria fondante un corretto rapporto tra libertà e coscienza nel discernimento morale. Afferma infatti Majorano: «il discernimento concreto della coscienza tende a individuare il passo attualmente possibile di questo cammino di liberazione».

            Il bene è sempre possibile

            Qualificare un atto come moralmente buono significa riconoscerlo come tendente al vero bene (cf. Veritatis splendor, n. 72). A meno che non lo si intenda in modo totalmente astratto e ideale, estrinseco dalla realtà storica, il bene è sempre possibile, perché la coscienza, in quanto segnata dalla storicità e dal limite, non potrà mai realizzare pienamente e completamente tutto il bene propostole. Potremmo dire che il bene è sempre davanti alla coscienza, nel senso che esso si pone come obiettivo da raggiungere in forma sempre più piena, crea una tensione, è un “imperativo di cammino”, direbbe il nostro Majorano. La stessa norma morale, insegna Tommaso nel De caritate, è comandata non quid faciendum, ma quo tendendum, cioè essa orienta al bene, ha un valore assiologico (cf. De caritate, X, ad I). Singolare è il contesto nel quale l’Aquinate fa questa affermazione, ovvero la spiegazione del comandamento dell’amore: l’uomo non potrà mai amare Dio con la totalità di se stesso, eppure questa tensione al bene della carità orienta tutte le scelte da lui compiute. Il bene attrae la coscienza e gradualmente le chiede di mettere in gioco la sua libertà per avvicinarsi, con gli atti concreti, ad una sua realizzazione piena. Le sta, appunto, davanti.

               Per questo motivo bisogna evitare ogni concezione massimalista e nominalista del bene, ogni confusione tra soggetto e soggettivismo, assolutezza ed universalità, relatività e relativismo, ogni espressione ambigua, fuorviante ed epistemologicamente non sempre fondata come quella di “beni non negoziabili”. Oggettivo e universale è senza dubbio il bene che abbiamo davanti, ma non possono essere tali le sue attuazioni pratiche, le quali non sempre valgono per tutti allo stesso modo perché va tenuto in conto il coinvolgimento della persona dinanzi al bene da compiere (cf. STh I-II, q. 94, a.4; Amoris laetitia, n. 304). La coscienza deve andare oltre la comprensione concettuale del bene ed esercitare realmente la sua libertà mentre discerne ciò che è concretamente realizzabile in una determinata situazione. Difatti, non sempre riusciamo ad attuare quanto conosciamo o quanto desideriamo, perché la nostra condizione umana è segnata dal limite e dalla fragilità. I limiti, leggiamo in Amoris laetitia, «non dipendono semplicemente da una ignoranza della norma. Un soggetto, pur conoscendo bene la norma, […] si può trovare in condizioni concrete che non gli permettono di agire diversamente e di prendere altre decisioni senza una nuova colpa» (Amoris laetitia, n. 301). Le circostanze sono un luogo rivelativo per il discernimento, non una mera appendice utile a determinare solo la responsabilità morale del soggetto. Pertanto, il bene non è mai ideale, ma sempre possibile. Ad impossibilia nemo tenetur, recita un antico adagio, e neanche Dio ci chiede di fare l’impossibile.

                  Un bene prima di poterne compiere un altro

                  Papa Francesco, nelle sue ormai più note e fondamentali esortazioni apostoliche, ha acceso i riflettori su questo criterio nel discernimento morale, affermando più volte la necessità di accompagnare le persone a fare il bene possibile, tenuto conto delle diverse tappe di crescita che ciascuno è chiamato a costruire passo dopo passo (cf. Evangelii gaudium, nn. 44-45; Amoris laetitia, n. 308). Va ricordato, per onestà intellettuale, che la tradizione morale, nel contesto dei principi morali elaborati in ambito casistico, conserva un background del criterio del bene possibile nell’ampia riflessione intorno al principio del male minore, come aiuto a districarsi nella complessità delle circostanze, spesso avverse[1]. Francesco, però, va oltre questo principio, rimettendo al centro quanto già esprime Familiaris consortio: la coscienza «conosce, ama e realizzare il bene morale secondo tappe di crescita» (Familiaris consortio, n. 34).

                   Questa prospettiva di cammino graduale ci aiuta a riconoscere nel bene possibile un criterio che non legittima mai compromessi, atteggiamenti lassisti o giustificazioni autoreferenziali; piuttosto impegna la responsabilità della coscienza a non assolutizzare la conclusione del proprio discernimento, mantenendosi aperta agli ulteriori passi. Il cammino morale è difatti un cammino di conversione, perciò il discernimento è dinamico, aperto ad ulteriori tappe. Ma il criterio del bene possibile è fondamentale anche perché ha in sé anche una grande forza pedagogica. Compiere un bene commisurato alle proprie forze permette alla coscienza di rafforzarsi nella pratica virtuosa, aiuta la persona a riconoscere dentro di sé la possibilità e la capacità di scegliere e attuare il bene. Tutto questo può consentire al soggetto di spingersi oltre, stimola a continuare con fiducia il proprio cammino di conversione accompagnando con fiducia l’azione dello Spirito: “se sono riuscito a compiere questo passo, posso provare a compierne un altro”. E così il bene, passo dopo passo, secondo le proprie possibilità, cresce.

                   L’unico bene possibile in una determinata situazione

                   Dobbiamo riconoscere, però, l’esistenza di situazioni complesse nelle quali non è oggettivamente possibile mutare le condizioni e le circostanze esterne. Pensiamo, ad esempio, al caso di una coppia unita in un secondo matrimonio, o a persone affette da malattie mentali che ne limitano l’agire, oppure contesti lavorativi non modificabili. Il bene concretamente possibile non è, in questo caso, un passo che apre ad un ulteriore discernimento, ma diviene l’unica scelta da poter fare: «Un piccolo passo, in mezzo a grandi limiti umani, può essere più gradito a Dio della vita esteriormente corretta di chi trascorre i suoi giorni senza fronteggiare importanti difficoltà. A tutti deve giungere la consolazione e lo stimolo dell’amore salvifico di Dio, che opera misteriosamente in ogni persona, al di là dei suoi difetti e delle sue cadute» (Evangelii gaudium, n. 44).

            In queste situazioni, il criterio del bene possibile ha in sé due vantaggi. Il primo riguarda una più corretta comprensione della verità della persona e un maggiore rispetto della libertà della sua coscienza. Siamo dinanzi ad un paradigma che consente di accogliere la complessità del reale, dando corpo ad una antropologia che dà maggiore spazio e dignità alla fragilità umana, considerandola come luogo in cui la verità morale si può realizzare e non un accidente dal quale liberarsi. Il secondo vantaggio riguarda la cancellazione del senso di colpa e della frustrazione che la persona si trova a vivere quando si sente incapace di poter agire diversamente o di aderire pienamente alla norma morale. In questi casi, infatti, può ingenerarsi un senso di frustrazione tale da raffreddare il rapporto personale e salvifico con Cristo, sentendosi quasi figli di “serie B”, non adatti, “sbagliati”, con gravi conseguenze per il proprio cammino di fede. Il bene possibile, anche quando non corrisponde alla totalità del bene realizzabile in modo ideale in quella situazione, è pur sempre bene e agli occhi di Dio appare sempre come tale.

                Una coscienza libera perché responsabile

               In che modo il criterio del bene possibile aiuta a comprendere in modo corretto la libertà della coscienza nel processo di discernimento? La scelta del bene in una particolare situazione chiede di dare maggiore centralità al discernimento e di curare con particolare attenzione la moralità di questo processo. Cosa significa? Solitamente il termine morale rimanda subito alla scelta tra il bene e il male, e questo è certamente il fine del discernimento. Qui, però, intendiamo specificare innanzitutto che morale deve essere soprattutto la modalità con la quale avviene questo processo. È qui, infatti, che si gioca la libertà della coscienza, una libertà che impara sul campo a divenire responsabile e matura. Perciò la coscienza deve riflettere su come decide, sul perché determina una scelta piuttosto che un’altra, su quali conseguenze scaturiranno (a breve e lungo termine) da quella scelta. Più la coscienza si affranca da una mera adesione legalistica alle norme, più si esercita a scegliere il bene possibile, più sarà capace di esercitare un discernimento oggettivo e non arbitrario. Questa è l’autentica e necessaria formazione della coscienza, a questa oggettività ci conduce il criterio del bene possibile. Dunque, una coscienza autenticamente libera è una coscienza che assume la responsabilità di formarsi e di imparare l’arte del discernimento.

           Così, la libertà sarà svincolata da ogni autoreferenzialità e resterà sempre relativa, cioè in relazione con la persona e la sua storia, con la realtà (situazioni e persone) in cui dover scegliere, con Dio e il suo appello a compiere il bene massimo della carità in ogni circostanza. «Il bene possibile si colloca proprio qui, all’incrocio tra il rispetto della verità della persona e la promozione della sua libertà»[2]. Non solo: «parlare di bene possibile non significa fare una proposta al ribasso. Tutt’altro: è sottolineare la necessità di riconoscere ciò che di fatto è meglio (cf. Fil 1,10), in forza della grazia che ci è stata anticipata»[3]. Così, non ci si adegua al minimo garantito dalla norma, ma ci si conforma al massimo bene della carità, scelto liberamente dal discernimento della coscienza in ogni circostanza.

[1] Per un excursus più ampio, cf. M. Faggioni, «Il male minore e il bene possibile», in Vivens homo 26(2015) 127-149.

[2] R. Massaro, «La ricerca del bene possibile», in Id. (ed.), Sui sentieri di Amoris laetitia. Svolte, traguardi e prospettive, Cittadella, Assisi 2022, 192.

[3] S. Majorano, «Quale criterio per discernere il bene possibile», in Anthropotes 35(2019) 395.

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