Sebastiano Pinto è professore ordinario di esegesi biblica presso l’Istituto teologico Regina Apuliae di Molfetta, Facoltà Teologica Pugliese. Ha conseguito la specializzazione in Scienze bibliche presso l’Istituto Biblico di Roma, il dottorato in teoria biblica presso la Pontificia Università Gregoriana e la laurea in sociologia presso l’Unisalento. Tra le sue ultime pubblicazioni segnaliamo Sapienza, Paoline (2022); «Lo Spirito Santo e noi». La sinodalità nella Bibbia: vocazione, fratture e processi, EMP (2022).
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La domanda posta dallo studente Tommaso Fucci centra una delle questioni più importanti nel rapporto tra Scrittura e riflessione etica. Il contributo ben articolato e corposo del prof. Wodka ha messo l’accento su diverse questioni, tra cui quella della necessità di una corretta ermeneutica del testo biblico. Vorrei partire da queste considerazioni per allargare e approfondire la questione posta nel nostro confronto.
La Bibbia non offre risposte preconfezionate. Essa è la proposta di salvezza offerta da Dio agli uomini, e va accolta nella sua globalità come offerta di vita piena. Per cogliere il valore di tale offerta, la Bibbia va interpretata nella sua dinamicità: attiva processi virtuosi che intersecano l’umano e lo portano all’incontro con il divino. La Scrittura non offre un “pacchetto” di fede sempre identico e pronto all’uso, ma racconta la chiamata di Dio che interpella l’uomo coinvolgendolo in una risposta d’amore[1].
Da ciò discende un concetto di morale non astratta (sulla testa delle persone). L’etica biblica è fortemente pedagogica e per nulla imparentata con l’ontologia morale tipica di una certa manualistica del passato (una morale sempre identica a se stessa, valida sempre e comunque a prescindere dal vissuto personale). Come precisa il documento Bibbia e morale, «il Dio della Bibbia non svela anzitutto un codice, ma “se stesso” nel suo mistero e “il mistero della sua volontà”»[2].
Il senso di giustizia
Provo a dare un esempio della dimensione processuale della risposta etica richiamando la nascita del senso di giustizia.
Il senso di giustizia è una realtà complessa che va gradualmente formandosi nella coscienza del popolo d’Israele. Esso è il frutto dell’interazione tra più emozioni come rabbia (per un torto subito), empatia (solidarietà con chi è oppresso) e gelosia (per chi ha avuto una fetta più grossa della mia). Tale senso di giustizia serve a riparare e limitare l’escalation di violenza e aggressione reciproca, atteggiamento che porterebbe alla soppressione del singolo corpo e, a lungo andare, del corpo sociale.
Si possono individuare una base di partenza e tre passaggi evolutivi che portano al senso di giustizia.
1) La legge del taglione. Rappresenta la prima (primitiva) piattaforma morale ed è così formulata:
Occhio per occhio, dente per dente, mano per mano, piede per piede, bruciatura per bruciatura, ferita per ferita, livido per livido. Quando un uomo colpisce l’occhio del suo schiavo o della sua schiava e lo acceca, darà loro la libertà in compenso dell’occhio. Se fa cadere il dente del suo schiavo o della sua schiava, darà loro la libertà in compenso del dente (Es 21,24-27: cf. anche Lv 24,20-21).
Una simile legge compensativa non arreca alcun progresso sociale e non sana il conflitto anzi, al contrario, lo acuisce aumentando la violenza in circolo come nel caso del giovenco imbizzarrito:
- Quando un bue cozza con le corna contro un uomo o una donna e ne segue la morte, il bue sarà lapidato e non se ne mangerà la carne. Però il proprietario del bue è innocente.
- Ma se il bue era solito cozzare con le corna già prima e il padrone era stato avvisato e non lo aveva custodito, se ha causato la morte di un uomo o di una donna, il bue sarà lapidato e anche il suo padrone dev’essere messo a morte (Es 21,28-29).
Alla fine della contesa nessuno è messo in condizione di recuperare i beni perduti, ed è una magra consolazione sapere che colui chi ha causato il danno ha ricevuto una quantità di violenza pari a quella posta in essere; la società si è impoverita perché se all’inizio del conflitto era solo uno dei suoi membri ad essere stato privato di un bene, alla fine tale deprivazione coinvolge più soggetti.
2) La riparazione monetaria. Il computo monetario del danno porta con sé un concetto più evoluto di socialità rispetto al taglione, frena la spirale di violenza e pacifica i litiganti, perché compensa la perdita con la contropartita in denaro o con altri beni. Riportiamo ancora l’esempio del bue imbizzarrito per evidenziare la transizione verso questo secondo step:
- Se invece gli [al padrone del bue] viene imposto un risarcimento, egli pagherà il riscatto della propria vita, secondo quanto gli verrà imposto.
- Se cozza con le corna contro un figlio o se cozza contro una figlia, si procederà nella stessa maniera.
- Se il bue colpisce con le corna uno schiavo o una schiava, si darà al suo padrone del denaro, trenta sicli, e il bue sarà lapidato.
- Quando il bue di un tale cozza contro il bue del suo prossimo e ne causa la morte, essi venderanno il bue vivo e se ne divideranno il prezzo; si divideranno anche la bestia morta.
- Ma se è notorio che il bue era solito cozzare già prima e il suo padrone non lo ha custodito, egli dovrà dare come indennizzo bue per bue e la bestia morta gli apparterrà (Es 21,30-32.35-36).
3) La riparazione simbolica. Essa interviene nel caso in cui si arreca la morte di qualcuno, evento davanti al quale sia la restituzione sia il il risarcimento monetario sono imperfetti (in quanto sistemi riparatori). La reclusione nella città-rifugio è un sistema compensatorio che amministra una pena senza moltiplicare l’escalation di violenza:
- Non accetterete prezzo di riscatto per la vita di un omicida, reo di morte, perché dovrà essere messo a morte.
- Non accetterete prezzo di riscatto che permetta all’omicida di fuggire dalla sua città di asilo e di tornare ad abitare nella sua terra fino alla morte del sacerdote.
- Non contaminerete la terra dove sarete, perché il sangue contamina la terra e per la terra non vi è espiazione del sangue che vi è stato sparso, se non mediante il sangue di chi l’ha sparso (Nm 35,31-33).
Il livello morale a cui rimanda questo terzo step ci porta a considerare che, poiché il denaro non riporta in vita il defunto, la soddisfazione giunge dalla limitazione della libertà dell’omicida che equivale simbolicamente alla sua morte sociale: tale detenzione rafforza il potere del clan offeso che infligge una punizione reale e pubblica, frena il pericoloso circuito delle faide familiari e ristabilisce un certo senso giustizia[3].
4) La riparazione simbolico-religiosa. Il quarto step permette di cogliere il rimando direttamente religioso della riparazione, e si verifica quando il comportamento umano ha leso non solo l’equilibrio sociale ma direttamente l’onore divino. Si rende necessaria un’espiazione simbolica perché c’è asimmetria tra la parte offesa e la parte che ha offeso, un’espiazione che fa appello alla sensibilità dell’offeso e che invoca il perdono. Diciamo con T. Kazen che la restaurazione della bilancia nella relazione umano-divina non dovrebbe essere considerata come una anomalia; alcune relazioni sono in se stesse asimmetriche e gerarchicamente definite. In alcuni casi, inoltre, si tratta della questione di un equilibrio disturbato che, per quanto diseguale, necessita di una restaurazione attraverso prove (tokens “gettoni, simboli, prove”) di riconciliazione, mediante i quali la parte umana fa appello al potere divino che è stato offeso per ottenere un’accettazione emozionale e la restaurazione dell’immaginaria bilancia[4].
Come giungere, dunque, ad un equilibrio tra ciò che ci dice la Sacra Scrittura e le nuove sfide che la teologia morale è chiamata ad affrontare oggi?
Una morale incarnata
La Scrittura offre orizzonti di riferimento in cui collocare le domande del nostro tempo: non possiamo chiedere alla Bibbia cosa dice dell’agopuntura, ma possiamo interrogarla sul valore del corpo «tempio dello Spirito» (1Cor 6,19). La teologia è chiamata a cogliere i processi insiti nel testo biblico e a cogliere il legame tra la Parola e la storia.
Tali processi coinvolgono la storia e la spiritualità. Poiché la morale biblica è una morale rivelata, supera di molto la portata di un codice di comportamenti da adottare o da evitare, o anche una lista di virtù da praticare e di vizi da combattere per assicurare l’ordine sociale e il ben-essere della persona. Essa si iscrive in un orizzonte propriamente spirituale, ove l’accoglienza del dono gratuito di Dio precede e orienta la risposta dell’uomo[5].
La qualità della risposta di fede si misura, pertanto, con la storia. Non in una fuga in avanti (fuga mundi) o indietro (verso una mitica età dell’oro) ma qui e ora. Tale morale è centrata sulla vita fisica, perché ciò che si muove nel corpo umano ha rilevanza nel discorso di fede e va preso sul serio, perché è dalla corporeità che nasce e si sviluppa l’universo simbolico umano.
[1] Rinviamo a un nostro saggio: I «sensi» della Bibbia. Corpo, oralità, legge e neuroscienze: men at work, in R. Massaro – N. D’Onghia (a cura di), Il sé tra ragione ed emozione. Come le neuroscienze interrogano la teologia, Ecumenica Editrice, Bari 2020, 9-30.
[2] Pontificia Commissione Biblica, Bibbia e morale. Radici bibliche dell’agire cristiano, n. 4.
[3] «È ragionevole pensare», annota T. Kazen, «che queste leggi riflettano un senso popolare di giustizia; essi hanno lo scopo di limitare l’escalation di aggressione e di restaurare l’equilibrio deturpato» (Emotions in Biblical Low. A cognitive Science Approach, Sheffield Phoenix Press, Sheffield 2011, 149).
[4] T. Kazen, Emotions in Biblical Low, 170.
[5] Pontificia Commissione Biblica, Bibbia e morale. Radici bibliche dell’agire cristiano, n. 156.
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