La seconda reazione al post principale del professor Pier Davide Guenzi è affidata al professor Roberto Massaro. Presbitero della Diocesi di Conversano-Monopoli, dottore in teologia morale e in scienze filosofiche, insegna teologia morale presso la Facoltà Teologica Pugliese e il Pontificio Istituto Accademia Alfonsiana di Roma.
Tra i suoi scritti in ambito bioetico ricordiamo L’etica della cura. Un terreno comune per un’etica pubblica condivisa, EdAcAlf-LUP, Roma 2016 e Per una vita degna. Riflessioni a margine della dichiarazione Dignitas infinita, EMP, Padova 2024 (con Gaia De Vecchi).
Insieme a Giorgio Nacci e Gianpaolo Lacerenza è tra i curatori del blog Promundivita.it e dirige, con Edizioni Messaggero di Padova, la collana Etica e formazione.
Tutti temono la morte subitanea, perché allora non vi è tempo di aggiustare i conti. Tutti confessano che i Santi sono stati i veri savi, perché si sono preparati alla morte, prima che giungesse la morte. E noi che facciamo? vogliamo aspettare ad apparecchiarci a morir bene, quando la morte sarà già vicina? Bisogna dunque fare al presente quel che vorremo aver fatto in morte.
Alfonso M. de Liguori, Apparecchio alla morte
Era il 1758 quando Alfonso de Liguori pubblicava per la prima volta l’Apparecchio alla morte. L’opera – frutto del suo lavoro trentennale di predicazione dei Novissimi nei borghi più difficili e poveri del Regno di Napoli – è stata ininterrottamente stampata fino a oggi, nonostante, nel tempo presente, si faccia fatica a parlare della fine della vita se non per tentare di ritardarla il più possibile o per rivendicare le scelte autonome del singolo individuo nel decidere di essa.
Il quesito posto da Emanuele De Michele riguardo alle nuove prospettive emergenti dal Piccolo lessico del fine-vita della PAV, ha sollecitato la risposta del prof. Guenzi il quale ha affermato che «più che parlare di “apertura” o di introduzione di “nuovi parametri decisionali”, siamo di fronte a una ripresa critica, sollecitata dalla evoluzione delle pratiche curative, tesa ad esplicitare tutte le potenzialità valutative insite nei principi etici sedimentati nella tradizione».
Andrea Cardullo, poi, reagendo all’intervento di Guenzi e alle possibili paure di “soggettivismo etico”, ha ribadito che tale rischio «non sta nel lasciare al paziente il compito di decidere se iniziare, non iniziare, proseguire, interrompere la NIA, ma piuttosto nel lasciarlo solo, nell’abbandonarlo, nel non metterlo, con il proprio contributo, nelle condizioni di poter formulare, con la maggior competenza che gli è possibile, il suo giudizio morale».
Pensiamo che proprio dietro questo invito a riscoprire le “potenzialità valutative” ci sia la scelta, da parte della PAV, di inserire come appendice del Piccolo lessico un modulo di compilazione delle DAT pubblicato originariamente dalla rivista Aggiornamenti sociali.
Siamo davvero persuasi che questo strumento possa aiutare a valorizzare la relazione di cura tra medico (o équipe medica) e paziente (col suo entourage familiare), fondata sul consenso informato e sull’interazione tra l’autonomia del paziente e la professionalità e le competenze del medico (proprio in tale prospettiva il consenso, scritto o videoregistrato, può prevedere il rifiuto di qualsiasi accertamento diagnostico o trattamento sanitario. Compito del medico, dunque, è quello di alleviare le sofferenze del paziente, evitando ogni forma di accanimento terapeutico e garantendo un’appropriata terapia del dolore o, se necessario, la sedazione palliativa permanente).
A nostro avviso, infatti, le DAT rappresentano il modo attraverso cui ogni persona ha la possibilità, nel più grande rispetto nei confronti del valore della vita, di decidere della qualità degli ultimi istanti della sua esistenza, come del resto ha fatto lungo tutto l’arco della vita, mediante la consapevolezza dell’incontro inevitabile con la morte e con Dio, e accompagnato da persone (medici, familiari e amici) che si prendano cura di lui e lo accompagnino nelle sue scelte.
- Non si tratta di spianare la strada verso scelte che consentano all’individuo di decidere “quando” morire, ma di indicazioni che gli permettano di scegliere “come” morire, cogliendo una sfida importantissima, ben sottolineata dal Gruppo di studio della Bioetica della rivista Aggiornamenti sociali, di “custodire le relazioni fino all’ultimo”.
- Secondo alcuni, poi, le DAT sarebbero uno strumento che enfatizza una forma di autonomia “selvaggia”. In realtà esse pongono attenzione all’autonomia che ogni individuo deve avere nelle scelte che riguardano la sua salute (così come la nostra stessa Costituzione sancisce all’art. 32). Questa autonomia, tuttavia, non appare assoluta, ma relazionale e dialogica: le DAT si redigono mettendo in stretta connessione il paziente con l’équipe Al paziente viene data la possibilità di esprimere i propri orientamenti e di essere tutelato in una situazione di estrema vulnerabilità; al medico viene riconosciuta la possibilità di informare e accompagnare il paziente, interpretandone le volontà. Si tratta di entrare sempre più nella logica della patient-centered care, di una “cura” che rispetti la persona nel profondo.
- Sull’annosa questione della nutrizione e idratazione artificiali – richiamate da Emanuele nella domanda e su cui Guenzi ha ampiamente risposto – ci permettiamo di aggiungere che, probabilmente, tale problema morale va affrontato valutando non soltanto l’efficacia della terapia di sostegno vitale, ma considerandone l’effettiva proporzionalità.
In tale ottica, il modulo delle DAT di Aggiornamenti sociali, riportato dal Piccolo lessico, consente a ciascuno di predisporsi – di “apparecchiarsi” avrebbe detto Alfonso – alle scelte riguardanti la conclusione della sua vita non solo da un punto di vista meramente medico, ma anche in ambiti che riguardano, per esempio, l’assistenza religiosa o spirituale, la donazione degli organi, la disponibilità a offrire il proprio cadavere per scopi scientifici. Aiuterebbe anche, mediante la scelta del fiduciario, a recuperare la dimensione relazionale della persona, guardando a questa figura non solo come un semplice “esecutore testamentario”, ma come un parente, amico o un esperto con cui dialogare sul tramonto della propria esistenza.
Cosa può fare ora la comunità ecclesiale? Di certo le lotte per ribadire asetticamente principi morali intangibili non possono più costituire il nostro stile. Siamo, invece, persuasi che sia compito urgente educare, ed educare al discernimento, perché a ogni coscienza sia riconosciuta la sua inviolabile dignità.
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